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cultură şi spiritualitate

La beata Agnese di Boemia (?) e sant'Enrico d'Ungheria, dipinti da Simone Martini nel transetto destro della Basilica Inferiore di Assisi, in una riproduzione oscena che si vorrebbe "prova" dei danni effettuati.
Il mio piccolo pensiero sulla polemica riguardante i restauri degli affreschi trecenteschi (Giotto e bottega, Simone Martini, Pietro Lorenzetti) della Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi.
Primo presupposto: una polemica come quella montata da Tomaso Montanari, che riguarda lo specifico pittorico e materiale degli affreschi, a mio avviso ha una piena credibilità se a sollevarla è uno studioso riconosciuto e autorevole di quelle opere: perché se non hai un rapporto intimo, profondo, direi addirittura simbiotico con quelle opere, il tuo parere su una questione tanto delicata vale poco. Montanari è un seicentista, e prevalentemente uno studioso di Bernini. Mi chiedo, dunque, se per una questione così specifica (roba da connoisseurship specializzata!)  il suo occhio (e i ricordi del suo occhio) sia davvero affidabile.
Certo, c’è il parere di Bruno Zanardi, un parere oggettivamente importante. Ma mi chiedo: se Zanardi si è accorto dei supposti sfaceli «un paio di mesi fa», perché ha aspettato tutto questo tempo per parlare? O forse si era già mosso in precedenza? Lo spero. In ogni caso, con tutto il rispetto per uno come Zanardi, sono riluttante a prendere per oro colato la sua opinione – e non per il fatto che, rispetto alle sue ipotesi sulla “questione giottesca” di Assisi, io sono su tutta un’altra linea di pensiero, ma per il semplice motivo che, da ateo integrale, ci penso bene prima di seguire qualsivoglia messia.
Bisogna aspettare, voglio dire, di conoscere le opinioni di altri e non certo meno qualificati studiosi di questi affreschi: da Ferdinando Bologna a Pierluigi Leone de Castris, la lista sarebbe lunghissima.
In definitiva, la proposta di una “commissione internazionale” mi sembra intelligente e opportuna, così da sgombrare o confermare i dubbi sollevati.
C’è comunque una questione più generale che riguarda il modo in cui si è sollevata la questione: un modo che a me non piace per niente.
Perché qui stiamo parlando di un problema di alto specialismo, un problema da valutare col metro di una accurata analisi scientifica che la prima pagina di un giornale come Repubblica ovviamente non garantisce. La mia sensazione è che, invece che una discussione seria e pacata, si sia scelta la strada dei titoloni e dello scandalo: una strada che, anche pensando a polemiche passate (sempre a proposito di Simone Martini, basti ricordare la polemica sul Guidoriccio), a una disciplina seria come la Storia dell’arte fa solo del male.
D’altronde uno dei caratteri tipici del linguaggio montanariano, il superlativo, è imbattibile nel creare il titolone: immaginate il grado di indignazione del “profano” che legge di danni a quelli che sono «forse i testi più sacri della storia dell’arte italiana» (con buona pace della Cappella degli Scrovegni, la Cappella Brancacci e la Cappella Sistina, i primi “testi forse meno sacri” che mi vengono in mente)?
Mi sembra, insomma, che Montanari sia caduto a piedi giunti in una delle brutture che denunciava tanto giustamente nel suo A cosa serve Michelangelo: «I giornali italiani parlano di storia dell’arte per dare “notizie”, possibilmente clamorose, non per far conoscere opinioni».
Imbarazzanti, poi, le fotografie pubblicate da Montanari nel suo pezzo: immagini orribili, sinceramente impresentabili; come si può anche solo pensare di proporre quelle brutture come prove della propria tesi (lo stesso discorso vale per le immagini postate online sul sito di Repubblica: meno scadenti, ma comunque indegne)? Al di là del fatto che qui si aprirebbe tutto un enorme e complesso capitolo sulla fedeltà delle riproduzioni fotografiche rispetto alle reali colorazioni delle opere d’arte, le foto montanariane mi sembrano un saggio di assoluto dilettantismo, e mi sembra strano che questo venga da uno studioso che, con toni fin troppo ostentati, si richiama alla tradizione del longhismo, e dunque di una Storia dell’arte che alla eccelsa qualità della riproduzione fotografica, vista come elemento primario di studio, dedicava una cura tutta particolare.
Ma ancora: prove di questo tipo possono essere tali solo per gli specialisti, per gli storici dell’arte studiosi di pittura trecentesca; perché proporle a lettori che non hanno le competenze necessarie? Per la comodità di avere il pubblico dalla propria parte? Oppure è con quegli obbrobri che Montanari pensa di attuare «la più autentica missione degli storici dell’arte: aiutare chi ama l’arte a “vederla” davvero», come scriveva sempre in A cosa serve Michelangelo?
La verità è che quegli scarabocchi sono indegni pure del giornalino scolastico, dunque non dovevano proprio essere pubblicati - ma qui ritorniamo al modo in cui si è alzata questa polemica: la via dello scandalo.
Per chiudere, voglio precisare: con questo post non sto dicendo che i dubbi sui restauri sono infondati; non lo posso dire perché, molto semplicemente, non ho le specialissime competenze indispensabili per esprimere un parere.
Quello che sto invece affermando è che, a prescindere dai risultati, questa polemica è di bassa lega: tanto che il motivo autentico che mi induce a prenderla sul serio sono le preoccupazioni espresse dai tecnici del Ministero, preoccupazioni che solo un incosciente snobberebbe. Insomma, staremo a vedere.

Nel frattempo vi segnalo un po’ di link per capire le varie posizioni, a partire da un articolo de Il Giornale dell’Arte che ben le riassume – clicca QUIQUIQUI eQUI. Consiglio, infine, questo intervento della professoressa Maria Beatrice Failla, molto utile e istruttivo

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