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Leggere e rileggere "La Pecora di Giotto". Intervista a Giovanna Ragionieri

Come vi preannunciavo nello scorso post, eccovi l’intervista che la storica dell’arte Giovanna Ragionieri ha avuto la bontà di concedermi. Giovanna, che ora conosceremo meglio, ve la presentai QUI, aprendo il post che tempo fa dedicò al suo maestro, Luciano Bellosi.
I temi di questa lunga intervista sono molteplici - innanzitutto la “questione giottesca” nell’interpretazione di Bellosi, ma non solo; lascio a voi il piacere di scoprirli senza anticiparvi altro. Buona lettura.

Giovanna Ragionieri


Mario Cobuzzi: Nella breve Avvertenza che apre La Pecora di Giotto, Bellosi scrive che «Questo libro deve moltissimo a Giovanna Ragionieri»: qual è stato il tuo contributo alla sua nascita?
Giovanna Ragionieri: Il mio contributo servì a trasformare un manoscritto in un libro, nel senso che il testo era pressoché pronto e bisognava dargli la forma di un libro: per esempio aggiungendo note ben strutturate.
Dobbiamo tornare al periodo in cui lavorammo al libro, tra la fine del 1984 e gli inizi del 1985, quando i computer non erano di uso comune: Bellosi scriveva molto bene a macchina perché aveva prestato servizio in un corpo militare di addetti alle telescriventi e dunque aveva una grande abilità dattilografica (scriveva con dieci dita), tanto che lasciare la macchina da scrivere per il computer non gli fu facile neppure in seguito, perché non ne coglieva i vantaggi. In ogni caso il testo era pronto, anche con aggiunte a mano. Ma all’epoca, senza Internet, le note richiedevano un lavoro lungo, frutto di molte ore in biblioteca: così chiese il mio aiuto. Ovviamente le note furono poi tutte discusse con lui e da lui approvate: ricordo a questo proposito numerose sedute di impostazione e revisione del mio lavoro a casa sua. L’atmosfera era assolutamente piacevole: era un po’ come stare in una bottega di artista, dove si imparavano tante cose.
Il testo ovviamente è tutto suo, ma, per timore che il mio apporto venisse considerato come sfruttamento da parte sua, Bellosi formulò questa frase che fa apparire il mio ruolo più creativo di quanto non sia stato. Scelse me perché ero una laureata abbastanza giovane che già conosceva i nodi critici relativi a Giotto: mi ero laureata pochi anni prima sulla committenza del cardinale Stefaneschi, e dunque avevo affrontato opere come il mosaico della Navicella e il polittico vaticano, oltre a discutere la cronologia dei mosaici di Pietro Cavallini in Santa Maria in Trastevere, sulla quale avevo già pubblicato un articolo.

Cobuzzi: Tu quindi ti laureasti con Bellosi?
Ragionieri: Sì. L’argomento della tesi, molto interessante, fu scelto da lui, probabilmente con la speranza che dalle mie ricerche potesse venire qualche indizio per il problema cronologico di Giotto, che già da tempo lo appassionava.

Cobuzzi: Hai accennato al metodo di lavoro di Bellosi: personalmente adoro il suo modo di scrivere, asciutto, che sembra quasi non venire da un longhiano.
Ragionieri: Bellosi, come spiega anche Roberto Bartalini nella nuova edizione di Abscondita de La pecora di Giotto, ha una scrittura molto personale, molto asciutta, probabilmente ottenuta attraverso un lavoro di affinamento e sfrondamento delle sovrabbondanze; ma in realtà i longhiani di Siena, quelli che a volte sono stati definiti un po’ impropriamente i longhiani di sinistra, rifiutavano deliberatamente di affidarsi al modo di scrivere del maestro, anche perché il suo stile era irripetibile e, forse, non più adatto agli anni della loro attività, dai ’60 in avanti: questo è anche il caso di Previtali. Da qui la necessità di sviluppare una propria e autonoma capacità comunicativa, molto più asciutta.

Cobuzzi: D’altronde anche la prosa dell’ultimo Longhi è molto più essenziale di quella della fase giovanile…
Ragionieri: Certo; in ogni caso, in Bellosi, siamo di fronte a una scrittura non solo sorvegliata, ma anche molto elegante: era un uomo di una notevole, anche se non esibita, cultura letteraria.

Cobuzzi: Personalmente trovo che la cosa più bella dello stile di Bellosi sia la sua capacità di rendere lo stile un qualcosa di oggettivo, di chiaramente esperibile, e dunque realmente comunicabile.
Ragionieri: Indubbiamente. Ma in parallelo al testo si può seguire, in questo e in altri libri – penso a Buffalmacco e il Trionfo della morte [Einaudi 1974 – tra pochi mesi sarà ripubblicato sempre da Abscondita] – il percorso delle illustrazioni, fatto dai confronti tra opere e dettagli accostati.

Cobuzzi: Per esempio mi sembra geniale, nella Pecora, il confronto fulminante tra il viso di Maria nella tavola di Borgo San Lorenzo e l’ancella nella scena assisiate con Esaù respinto da Isacco.
Ragionieri: La Madonna di Borgo San Lorenzo non fu una scoperta di Bellosi, ma La pecora di Giotto è uno dei primi studi in cui se ne parla in sede scientifica; a questo proposito, ricordo che invece Giovanni Previtali non era molto convinto dell’attribuzione a Giotto.
Comunque i confronti di immagini che si vedono nei suoi libri erano tutte sue “invenzioni”: erano cose su cui era attentissimo, ci lavorava sempre in prima persona. Ecco: l’unica cosa che non ho imparato del suo metodo di lavoro è proprio la capacità di realizzare montaggi come quelli.

Giotto, Madonna col Bambino, (particolare) prima del 1290. Borgo San Lorenzo (Firenze), Pieve di San Lorenzo.

Giotto, Isacco respinge Esaù (particolare), 1290 ca. Assisi, Basilica Superiore di San Francesco.


Cobuzzi: Nella Pecora di Giotto Bellosi formula ipotesi storiografiche molto innovative. Come venne accolta l’idea che gli affreschi della Basilica Superiore di san Francesco ad Assisi formano un ciclo realizzato in un breve e precoce giro di anni (1288-92 ca.)?
Ragionieri: C’è voluto un po’ di tempo, nonostante l’importanza riconosciuta al libro. Questa ipotesi venne poi rafforzata dalla monografia del 1998 su Cimabue, un libro che, nonostante il suo valore, e nonostante le ristampe, non è stato forse pienamente valutato. In ogni caso La pecora di Giotto e la monografia cimabuesca sono due libri che si completano in una sorta di dittico; ecco perché la mia copia della Pecora è così sgualcita: nonostante fosse un libro che conoscevo benissimo, mi è servito durante le fasi di realizzazioni del catalogo delle opere nel libro di Bellosi su Cimabue e quando ho affrontato di nuovo temi giotteschi.

Cobuzzi: A proposito di copie sgualcite, quel che mi sembra chiaro è che la Pecora è un libro densissimo: io l’ho letto un mese fa, ma già sento la necessità di rileggerlo.
Ragionieri: Volevo a questo proposito sottolineare un’altra cosa: nell’altro suo grande libro, Buffalmacco e il Trionfo della morte, Bellosi imposta una serie di argomenti che affronta esclusivamente nelle note; un altro studioso avrebbe invece scritto altri libri o almeno dei saggi. È qui che Bellosi presenta per la prima volta il tema della moda come strumento di datazione: nell’ultimo capitolo, Dal Maestro del Trionfo della morte a Buffalmacco, aggiunge infatti una nota molto lunga in cui prende come esempio la presenza di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, riconoscendo che si tratta anche di un problema di datazione: così fa un confronto tra i costumi dei personaggi di Assisi e quelli dei personaggi della cappella degli Scrovegni a Padova, mettendo i primi in relazione con un dipinto come la tavola di Santa Chiara ad Assisi, datata 1283. Di lì a poco questo strumento di indagine torna in I Limbourg precursori di Van Eyck? Nuove osservazioni sui "Mesi" di Chantilly, con cui si inaugura nel 1975 la rivista “Prospettiva”.

Cobuzzi: Siamo venuti a uno degli snodi centrali della critica d’arte di Bellosi: la moda. Bartalini chiama in causa Pietro Toesca, come fonte di questo interesse.
Ragionieri: In Toesca, però, l’interesse per la moda è prevalentemente descrittivo: mi sembra che questo fattore non entri in gioco in termini operativi. Ovviamente, anche se noi allievi di Bellosi discendiamo indirettamente dal suo maestro Longhi, la lezione di Toesca risulta molto importante. Senza di lui gli studi di Storia dell’arte medievale sarebbero impensabili e il Medioevo e il Trecento rimangono testi insostituibili, sempre nella libreria dietro le mie spalle: libri paragonati da Gianni Romano a spettacolari bastioni di difesa.
Aggiungo che Bellosi aveva in mente di realizzare un libro tutto dedicato alla moda, affrontata dal punto di vista dello storico dell’arte e non dello storico del costume; avrei dovuto lavorarci anche io, ma purtroppo non ci fu nemmeno il tempo di abbozzare un piano. È un progetto che partiva da lontano: ricordo un seminario degli anni settanta nel quale dovevamo schedare quante più opere possibili datate con certezza, così da poter realizzare un campionario dei modi di vestire. L’obiettivo era quello di un formare grande repertorio iconografico e sarebbe bello che questa idea venisse ripresa. Personalmente, in seguito, mi occupai sotto questo punto di vista della Madonna nel Polittico di Bologna, opera degli ultimi anni di Giotto, caratteristica per l’uso del soggolo o “glimpa”.
Per tornare al confronto con Toesca, c’è da sottolineare che anche Bellosi era estraneo alle generalizzazioni e alle teorizzazioni: non avrebbe mai fondato un sistema storico-artistico, ma preferiva limitarsi a fornire, anche implicitamente, una serie di indicazioni metodologiche.

Cobuzzi: Andrea De Marchi scrive non a caso che Bellosi «non predicava il metodo, lo praticava».
Ragionieri: Certo. E noi allievi abbiamo tutti un po’ dovuto costruirci il nostro metodo di lavoro, anche per imitazione, seguendo i suoi accenni. Questo non significa che Bellosi sia privo di sostanza metodologica!

Cobuzzi: Leggevo a questo proposito, nella Postfazione di Bartalini, che deve uscire un suo saggio metodologico sui conoscitori…
Ragionieri: È il testo di una conferenza tenuta al Kunsthistorisches Institut di Firenze, che purtroppo non potei seguire per impegni di lavoro: inutile dirti che sono molto curiosa di leggerlo. Io comunque lo immagino come una serie di esempi.

Cobuzzi: Per tornare alla Pecora di Giotto, una delle cose principali del libro è la rivalutazione della figura di committente di Niccolò IV, primo papa francescano. Ma sbaglio o, in chiave soprattutto romanizzante, si è ultimamente incentrata l’attenzione su Niccolò III?
Ragionieri: Il riferimento degli affreschi di Cimabue a Assisi al tempo di Niccolò III è tradizionale, ma la sua importanza come committente sembrò ricevere nuovo impulso grazie ai restauri del Sancta Sanctorum. Bellosi affrontò questo argomento nella monografia su Cimabue, scritta proprio negli anni del restauro del Sancta Sanctorum. La sua tesi era che il pittore che, documentato a Roma nel 1272, avesse influenzato anche i pittori del Sancta Sanctorum. Quel libro è anche intriso di uno slancio polemico, come risposta alle tesi romanizzanti che da quel restauro prendevano vigore.
Per tornare a Niccolò IV, l’estrema importanza del suo ruolo di committente è stata confermata dalla successiva scoperta di un documento (citato anche nella postfazione di Bartalini) in cui si parla del ruolo primario di questo papa nella decorazione della Basilica Superiore di Assisi. Bellosi lo utilizzò in modo deciso per confermare le sue ipotesi cronologiche su Assisi, anche oltre le intenzioni di coloro che avevano pubblicato il documento (Donal Cooper e Janet Robson).

Cobuzzi: Sempre a proposito di Cimabue, credo che la ricostruzione della sua attività sia una delle cose più importanti della Pecora.
Ragionieri: E infatti la monografia del 1998 è già anticipata in parte nella Pecora: l’idea, per esempio, del rapporto a tre tra Cimabue e i suoi giovani allievi Duccio e Giotto, è fondamentale. Ho già detto che i due libri costituiscono una sorta di dittico e sono contenta di aver collaborato a tutti e due.

Cobuzzi: Ma sbaglio, o la centralità di Cimabue per la pittura del Duecento – penso ancora a Roma – non è stata del tutto riconosciuta?
Ragionieri: Lo credo anche io. E credo che si approfitti del fatto che la grande maggioranza delle sue opere sono andate perdute per sminuirne non la grandezza, ma il ruolo. Ma il fatto che l’unico documento su Cimabue ce lo presenta come testimone in un atto notarile di grande importanza, vuol dire che a Roma non doveva essere solo di passaggio: doveva, anzi, avere un ruolo di prestigio anche nell’ambiente curiale.

Cobuzzi: Sempre a proposito di Cimabue: alla conferenza stampa della prossima mostra giottesca di Milano, si è parlato di Giotto come del primo artista itinerante; ma questo non è già un ruolo di Cimabue che, ovunque è andato, ha creato un (per riprendere un concetto di Bellosi) “contesto cimabuesco”?
Ragionieri: Sì, però lo stesso Bellosi notava che l’influenza di Cimabue in Umbria fu di breve portata: e questo perché poco dopo arrivò Giotto; i cimabueschi umbri sono infatti un fenomeno marginale rispetto ai seguaci umbri di Giotto. Il punto è che Giotto è qualcosa di più, ma questo giudizio è naturalmente influenzato dal fatto che di Cimabue abbiamo pochissime notizie.
Per quanto riguarda la mostra, quello che hai riportato della conferenza stampa può essere anche un modo per, diciamo così, “vendere” Giotto, che certamente è un artista famosissimo, ma forse non così di richiamo per il grande pubblico; in altre parole, il suo nome, forse, non ha lo stesso impatto di un Leonardo o un Caravaggio. Questo lo dico con dispiacere, in quanto Giotto è uno degli artisti a cui maggiormente ho dedicato i miei studi.
Per quanto riguarda i contenuti della mostra, mettere insieme opere di quella portata non è certo uno scherzo, ma è facile immaginare che il pubblico più inesperto si aspetti anche di più: immagino che qualcuno possa lamentare l’assenza degli affreschi della cappella degli Scrovegni…

Cobuzzi: Direi che questa mostra, con le opere che è riuscita a ottenere, fa davvero capire il potere di Expo!
Ragionieri: Tieni anche presente che nel comitato scientifico c’è Antonio Paolucci, direttore dei Musei vaticani, che ha dato il suo consenso per il prestito del Trittico Stefaneschi: alla mostra fiorentina del 2000, invece, ricevemmo di quell’opera solo un pezzo della predella.
Invece l’ultima mostra su Giotto, quella del 2013 al Louvre, presentava non solo dei pezzi eccezionali, ma li legava in un discorso critico molto coerente e originale.

Cobuzzi: A proposito, quella mostra è dedicata a Bellosi e Miklós Boskovits: questo ci autorizza a pensare che in Francia le tesi giottiste vadano per la maggiore?
Ragionieri: La mostra del Louvre, alla quale hanno lavorato De Marchi e altri studiosi italiani, si muoveva certamente nel solco della lezione di Bellosi e Boskovits, due studiosi sicuramente diversi ma in grado di fronteggiarsi con rispetto anche nei casi di attribuzioni o valutazioni su cui si trovavano in disaccordo.
Per tornare alla Francia, certamente la linea pro-Giotto è quella più seguita, mentre negli Stati Uniti, per esempio, lo è molto meno.

Cobuzzi: A proposito del rapporto tra Bellosi e Boskovits, trovo straordinario il catalogo della mostra Masaccio e le origini del Rinascimento (Skira 2000): qui si assiste, nel saggio di Bellosi, a una netta svalutazione del giovanile Trittico di san Giovenale; svalutazione che viene subito contraddetta nel successivo saggio di Boskovits!
Ragionieri: La svalutazione del Trittico di san Giovenale è in realtà tipica dell’ambiente longhiano, tanto che quell’opera non venne esposta alla mostra masaccesca: un dipinto mai amato da Bellosi e dai longhiani. E io stessa, per anni, mi sono ostinata a non ritenere il Trittico un’opera di Masaccio; ho anche pensato che il 1422 non fosse la data di realizzazione ma una data votiva; ammetto tuttavia di non essere riuscita a dimostrarlo e mi sono tenuta per me tutte le mie riserve.
Nel frattempo è venuta fuori una cosa molto interessante: i punti deboli, che certamente esistono in questo dipinto sono da imputare al fatto che è un’opera di collaborazione. Quindi Masaccio a 21 anni poteva già avere degli aiuti o essere membro di una società di pittori più ampia.

Cobuzzi: Torno a Giotto. Anche dopo il 1985, Bellosi ha continuato a interessarsi alla questione giottesca, con una serie di saggi che in un certo senso completano La pecora. Quali, secondo te, le acquisizioni successive più importanti dello studioso?
Ragionieri: Io ho l’impressione che sia stato più un modo di rifinire i suoi argomenti che di completare o portare nuovi argomenti. C’è stata sicuramente una maggiore chiarezza nel definire la successione delle fasi decorative della Basilica Superiore. Poi Bellosi ha dovuto contrastare, o comunque affrontare, le voci “separatiste” venute a galla anche in campo italiano (pensa a Bruno Zanardi o Federico Zeri).
Così nel saggio contenuto nel volume Assisi anno 1300 del 2002, scrive: «Zanardi crede di poter identificare il secondo dei maestri da lui discussi [nelle Storie di san Francesco] con il romano Pietro Cavallini, proponendo, con il convinto sostegno del conoscitore alcuni confronti stilistici: si tratta peraltro di confronti troppo ravvicinati che mettono in evidenza un’affinità di modi esecutivi più che di stile, e che dicono piuttosto che cavallini ha imparato molto dalle Storie di san Francesco, forse salendo sui ponteggi di Assisi, mentre non ci sembra dimostrabile che abbia partecipato all’esecuzione. Metterne in campo il nome significa a nostro avviso riproporre le vecchie polemiche tra fautori della scuola romana e della scuola fiorentina, suscitata dalla scoperta degli affreschi cavalliniani in Santa Cecilia in Trastevere: i primi decenni del Novecento sono stati infatti caratterizzati sotto questo aspetto a spiegare come romanizzanti tutti i fenomeni della pittura italiana» - a questo aggiungo, a proposito della presunta centralità di Roma, che i papi risiedevano saltuariamente nell’Urbe: lo stesso Niccolò IV, oltre che su Assisi, si concentrò molto su Orvieto.
C’è poi in Italia una sorta di snobismo culturale che, volendo a tutti i costi negare le idee riconosciute, credendo di dover sempre “rifondare il sapere”, porta alla rivalutazione di Cavallini: pensa allo spettacolo di Dario Fo, che si ritiene quasi un perseguitato per aver esposto la sua idea antigiottesca.
Quando cominciai a interessarmi alla cronologia di Cavallini, e in particolare ai mosaici di Santa Maria in Trastevere, venni da alcune parti accusata di proporre soluzioni strumentali alle tesi di Bellosi: la mia idea è che quei mosaici siano più tardi del canonico 1291 che vi si legge di solito. Più recentemente le tesi che posticipano le sue opere romane sono prese in considerazione.
È comunque evidente che per rivalutare Cavallini si tenda a retrodatare i suoi lavori; e lo si fa prendendo per assodate date del tutto incerte: anche la datazione a dopo il 1295 per l’affresco nell’abside di San Giorgio in Velabro, che sembra la più logica per via del cardinale Stefaneschi, nominato cardinale alla fine di quell’anno, non è sicura. Vengono così quasi dimenticate le opere di Napoli, eseguite durnate un soggiorno sicuramente datato nella capitale angioina, e l’affresco per la tomba del cardinale Matteo d’Acquasparta in Santa Maria Aracoeli, collegabile al 1302, data della morte del cardinale.
Comunque secondo Previtali (che era profondamente laico) nella rivalutazione di Cavallini c’è un che di clericale: nel senso che, fin dalla seconda edizione delle Vite di Vasari, nacque l’idea di Cavallini come artista devoto, “santo”, a cui venivano attribuite anche immagini miracolose.
In ogni caso, nella lotta tra giottisti e cavalliniani c’è anche una notevole dose di campanilismo.

Cobuzzi: Quindi, secondo te, i mosaici di Santa Maria in Trastevere a che altezza cronologica possiamo porli?
Ragionieri: Secondo me quei mosaici derivano da quelli di Jacopo Torriti nell’abside di Santa Maria Maggiore, realizzati nel 1296, e sono posteriori a questa data. Bellosi, poi, puntava molto sul giubileo del 1300: le offerte raccolte in quell’occasione avrebbero potuto finanziare secondo lui imprese artistiche di ampia portata. Io invece non sono così certa che si possa arrivare al 1300-1302.

Jacopo Torriti, Presentazione al Tempio, dal mosaico absidale di Santa Maria Maggiore, Roma - 1296

Pietro Cavallini, Presentazione al Tempio, dal mosaico absidale di Santa Maria in Trastevere, Roma. 1296-1300 ca.


Cobuzzi: Domanda forse un po’ scorretta: Bellosi come prese l’identificazione del Maestro di Isacco con Arnolfo di Cambio, proposta da Angiola Maria Romanini?
Ragionieri: Beh, in questo caso Bellosi recuperò un passaggio di Giovanni Previtali che quest’ultimo, forse per diplomazia, aveva cancellato da un suo manoscritto: «Quando perfino un presunto maestro degli studi di Storia dell’arte medievale dimentica la radicale differenza che alla fine del Duecento separava le carriere del pittore, con i suoi anni ed anni di acquisizione empirica delle capacità tecniche specifiche, e di quelle specialmente che richiedeva il disinvolto uso del “buon fresco”, da quelle dello scultore ed arriva a ritenere legittimo proporre che un artista come Arnolfo (sulla cui formazione tipicamente scultorea siamo fortunatamente ben documentati) fosse il più grande pittore di affreschi del suo tempo, c’è da chiedersi se non siamo di fronte a un pericoloso attenuarsi della sensibilità storica, intendendo per tale la capacità di selezionare tra le ipotesi astrattamente proponibili quelle che circostanze storiche (generali e particolari) rendono concretamente probabili».
In ogni caso il collegamento tra le Storie di Isacco e Arnolfo era già stato proposto da Franco Renzo Pesenti negli anni settanta. C’è però da dire che quando la Romanini ebbe l’intuizione che la Madonna del monumento de Bray (San Domenico, Orvieto) fosse una statua romana rilavorata, fu possibilista: in questo modo dimostrava un’apertura mentale verso gli studiosi schierati in campi avversi, che il suo maestro Longhi non aveva. Per esempio quando si è occupato di Richard Offner, che potremmo classificare come suo avversario per la diffusione della teoria del non-Giotto, ne parlò sempre con molto rispetto riconoscendone la statura di studioso, valorizzando in particolare i suoi studi lontani dal campo trecentesco per cui divenne famoso.

Cobuzzi: È dunque chiaro che in Italia il fronte giottesco, tipico degli italiani, si sia in parte sfaldato.
Ragionieri: Quando cominciai a studiare questi temi, in effetti era quasi un luogo comune che gli italiani fossero favorevoli a Giotto. Ma c’è da dire che un precedente “separatista” importante è rappresentato dalla monografia giottesca di Carlo Carrà, che parte direttamente dalla cappella degli Scrovegni.

Giotto e aiuti, Pentecoste, 1290 ca. Assisi, Basilica Superiore di San Francesco


Cobuzzi: A proposito di Assisi, personalmente adoro la scena della Pentecoste: quei cassettoni in prospettiva sembrano quasi un esperimento di Optical Art. Sbaglio o Bellosi tendeva un po’ a svalutarla?
Ragionieri: Ricordo che, in una visita ad Assisi, Bellosi commentò la Pentecoste in modo attento e pertinente. Invece nelle sue pubblicazioni tutta la fase che sta fra le due Storie di Isacco e le Storie di San Francesco è messa un po’ tra parentesi, forse perché qui pesa di più la presenza dei collaboratori, che non erano però suoi allievi ed erano portatori di una cultura più arcaica; tra l’altro credo si possa facilmente immaginare che un giovane come Giotto potesse in un certo qual modo risultare “antipatico” a pittori più anziani che già lavoravano nella Basilica, e che magari avevano anche realizzato dei riquadri in proprio: di certo non doveva essere piacevole ricevere ordini da qualcuno più giovane. Fra le scene anteriori al ciclo francescano fa però eccezione la Deposizione, tenuta da Bellosi in grande considerazione.

Cobuzzi: Domanda finale forse un po’ scontata: ti piace la nuova edizione di Abscondita de La pecora di Giotto?
Ragionieri: Beh, ovviamente io sono lieta di possedere l’edizione di Einaudi; il merito di Abscondita è stato quello di conservare l’apparato iconografico originale, che è parte fondamentale del libro. Poi è utilissima la postfazione di Bartalini, specialmente per chi non conosce la genesi del libro e gli viluppi critici del problema di Assisi: quindi certamente un’ottima edizione.

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