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Henri Pirenne: o della moralità dello storico

https://controhistoria.wordpress.com/2017/02/21/pirenne-o-della-mor...

pirenneNel 1937, in Belgio, in lingua francese (tradotto due anni dopo in italiano) usciva “Maometto e Carlomagno” dello storico di Verviers, Henri Pirenne. Il libro, divenuto in brevissimo tempo un classico della ricerca storiografica tardoimperiale e primo-medievistica, affronte il difficile tema del trapasso tra romanitas e mondo medievale. Un tema ed una sfida, queste, strettamente connesse ad un’altra domanda centrale nella discussione storica circa il senso esatto della partenogenesi del Medievo (e del lungo declino del mondo romano): quando finisce il mondo romano? Quando inizia, esattamente, il Medioevo?

Domande, queste, che molti storici riducono a meri esercizi di stile: un Jacques le Goff direbbe che il Medievo, nato sul binario seguito dalla Translatio Imperi, muore solo molto in ritardo sulla tabella di marcia, spingendosi fino almeno al 1789[1]. Ma, data per certa una data di fine (1492) che ci permetta di sgombrare la mente dal problema Colombo, l’inizio del Medioevo rimane il punto dolente di ogni narrazione di sicurezza storica. Su di un punto centrale, vale a dire l’assoluta “staffetta” tra romanità e Medioevo cristiano, la Pop-History di molti decenni ha ricamato una convenzione biunivoca. Tuttavia, accettare in via di ipotesi che Odoacre, nell’atto di deporre Romolo Augustolo, non già sia conscio, ma almeno agente passivo di un cambiamento epocale, è di difficile sostegno. La tentazione è quella di far notare allo storico simplicissimus che la deposizione del 476 è largamente simbolica e arriva solo all fine di un lungo processo di depauperazione dell’effettivo potere latino-romano. Un lungo processo che non viene intaccato più che tanto dal viaggio da Roma a Bisanzio delle insegne imperiali, ma che continua ancora per decenni.

Quale momento (più che data, che è il “si può fare” franksteiano di ogni storico) è allora indicativo di questo “omicidio perfetto” dell’elemento barbarico ai danni del vecchio romano?

Come avremo l’opportunità di citare dopo, storici marxisti della portata di Lucien Febvre (fondatore degli Annales insieme a Marc Bloch) hanno messo in luce l’assoluta conseguenzialità di questo snodo storico. A questa conditio sine qua non Febvre lega anche una dimensione geografica di assoluta importanza: il Medioevo nasce quando l’unità del Mediterraneo si spezza. Così si esprime Febvre: “L’Europa è una formazione politica, economica, culturale che non ha più per centro un mare, il suo mare, il mare nostrum, il Mediterraneo, ma che ha due fronti di mare, due affacci sul mare, o piuttosto due affacci di mare su due sistemi di marittimi singolarmente diversi l’uno dall’altro; da un lato il sistema mediterraneo, a cui il taglio di Suez ha conferito un valore nuovo; e dall’altro il sistema oceanico, con tutti i suoi annessi […]”

e ancora: “Dunque, l’Impero Romano non era l’Europa. Ma dov’era l’Europa? Abbiamo disceso i secoli, e ci siamo fermati all’Impero Carolingio. E’ l’Impero Romano che rinasce? Certamente no. L’Impero Carolingio è tagliato fuori dal Mediterraneo. L’Impero Carolingio è essenzialmente terrestre. Ma non è questa la sua caratteristica essenziale. L’Impero Carolingio è nordico. Ha il suo cuore, il suo centro, la sua capitale, nel Nord, in una regione pressochè barbara. Esso si estende al di là del Reno, che era stato il confine di Roma, in terra barbara e pagana. E integra i paesi che porta così con sè, i paesi nordici, nella sua formazione, unendoli ai vecchi paesi, tutti impregnati di civiltà mediterranea […]”[2]

Quindi, la Geografia che irrompe a gamba tesa nella storiografia sulla senescenza del Medioevo. Europa sta a Medioevo come il Mediterraneo sta, nell’esser valorizzato, all’Impero Romano. E se l’Impero Carolingio è il primo prodotto radicalmente medievale, il primo prodotto che si è scosso dalla barba gli ultimi rimasugli di vera  romanitas, la sua dimensione nordica e franco-germanica è la testimonianza di un triangolo culturale vivo: Medioevo-Europa-Mediterraneo.

Questo triangolo, soprattutto i due vertici bassi (Medioevo e Mediterraneo) avevano già suggerito una lettura interrelata: l’aveva data proprio Pirenne, che nel suo capolavoro (il succitato Maometto e Carlomagno) costruisce la sua tesi, la tesi Pirenne. La quale, in definitiva, sostiene che l’Impero Romano, la Romanitas, finisca quando il Mediterraneo, il lago romano, viene diviso, e da cuore interno di un asse di civiltà ne diventa il limes, talvolta sicuro ma, più spesso, turbolento.  Nel momento stesso in cui mettiamo accanto, anzi, mescoliamo queste tre questioni e le rendiamo intermodabili, ci rendiamo conto della loro fecondità intellettuale. La romanitas così profondamente intrisa di Mediterraeo da averlo rinominato, come si rinominano cose proprie, era una res acquatica, costruita per veleggiare e sostentarsi su un ben congeniato sistema di interdipendenza economica che come arena aveva la maggior parte del mondo allora conosciuto: di sicuro il più prospero.

Ma cosa vuol dire, esattamente, la “rottura del Mediterraneo”?

Il Mediterraneo smette di essere politicamente unito nel 395, con la divisione voluta da Teodosio. E se anche le due sfere del Mediterraneo sono comunque un affare latino, e pertanto nessun solco è stato scavato, se non amministrativamente, rimane comunque il fatto incontrovertibile che l’unità politica del Mediterraneo è rotta. Rimane intonsa quella economica. Lo spazio economico mediterraneo rimane intatto, ma anche questo traballa: la progressiva disgregazione della parte occidentale, la perdita effettiva di sovranità, l’ascesa di signori locali, le primi enclavi barbariche all’interno dei confini frammentano anche la rapidità commerciale e la sicurezza del lago romano. Tanto che proprio dai poli mercantili e dalle città marittime inizia la crisi irreversibile dell’economia romana e post-imperiale. Indubbiamente le installazioni dei Visigoti in Spagna, la sortita Vandala nell’Africa Settentrionale, il regno Ostrogoto in Italia e la conseguente terribile guerra greco-gotica (535-553) avevano rarefatto il flusso commerciale nel Mediterraneo, ripercuotendosi anche sulla pars orientalis. Lo stesso Pirenne ammette, seppur sottolineando gli elementi di continuità economica, che l’inizio della “decommercializzazione” dell’economia altomedievale comincia proprio nel periodo tra il 476 e il 600 D.C.

Quindi, è lecito obbiettare, esiste una “rottura” del Mediterraneo quasi contemporanea alla data d’accademia dell’inizio del Medioevo. Pirenne tuttavia rilancia, e chiarisce quale sia stata, per lui, la vera rottura, e cosa l’ha generata: “Con l’Islam un nuovo mondo entra nel bacino del Mediterraneo, dove Roma aveva diffuso il sincretismo della sua civiltà. Ha inizio una lacerazione che durerà fino ai giorni nostri. Sulle rive del Mare Nostrum si stendono oramai due civiltà diverse ed ostili; e se ai nostri giorni quella europea ha sottomesso quella asiatica, non l’ha tuttavia potuta assimilare. Il mare, che fino ad allora era stato il centro della cristianità, ne è adesso la frontiera”

e ancora: “In pari tempo l’Oriente era separato dall’Occidente. Il legame che aveva lasciato sussistere l’invasione germanica era reciso. Bisanzio non era più ora che il centro di un impero greco, per il quale non c’era più nessuna possibilità di una politica giustinianea. Esso era ridotto a difendere i suoi ultimi possessi, i cui più lontani posti avanzati in Occidente erano Napoli, Venezia, Gaeta, Amalfi. La flotta permetteva ancora di conservare il contatto con essi, impedendo così che il Mediterraneo occidentale divenisse un lago musulmano; ma il Mediterraneo occidentale non era che questo. Esso, che era stato la grande via di comunicazione, diventò una barriera insormontabile. L’Islam ruppe l’unità del Mediterraneo, che le invasioni germaniche avevano lasciata sussistere. E’ questo il fatto più essenziale che sia avvenuto nella storia dell’Europa dal tempo delle guerre puniche. E’ la fine della tradizione antica e l’inizio del Medioevo , proprio nel momento in cui l’Europa era sulla strada per diventare bizantina”[3] 

Per Pirenne, quindi, non è il semplice frammentarsi della sovranità politica sul Mediterraneo a costituire un evento periodizzante in senso assoluto, ma il fatto che questa nuova sovranità sia radicalmente alternativa alla precedente in molti sensi. Prima di tutto in senso culturale. Se, difatti, i barbari, una volta entrati entro il limes, adottano (o tendono a scimmiottare) la cultura romana, gli arabi musulmani non subiscono la fascinazione romana, e gli si oppongono fortemente. Una nuova cultura, quindi, irrompe nel Mediterraneo, spezzando un unità latina che era ormai divenuta un dato di fatto almeno dal II Secolo D.C. Con una nuova cultura, gli arabi musulmani portano anche una nuova religione. Anche qui, le differenze con i barbari sono radicali. Mentre i barbari risultavano già cristianizzati, per la maggioranza, al momento dell’entrata entro in confini romani, e comunque portatori di una religiosità debole in confronto al più organizzato e sofisticato cristianesimo, gli arabi musulmani avevano con se una forte fede totalizzante, che aveva già unito sotto una sola insegna militare popoli molto diversi, e aveva di fatto informato una civiltà. Anzi, è possibile dire che proprio spinti dalla fede gli arabi mossero decisi alla conquista delle coste mediorientali.[4]

Infine, il Califfato Omayyade (661-750) aveva raggiunto un peso specifico molto più grande dei singoli regni romano-barbarici, riuscendo a creare un unico spazio politico e commerciale tra il Nord Africa e il Khorasan, capace quindi di captare il flusso di merci verso zone extraeuropee, con centri come Baghdad o Damasco. Letteralmente, il nuovo invitato alla tavola rotonda mediterranea scippa da sotto il braccio alla romanità, occidentale ed orientale, il predominio economico, culturale e politico del Mediterraneo, drenando risorse e rimettendo in discussione una verità geostorica accertata.

Pirenne, unendo geografia e Storia, non suggerisce solamente un via di uscita sottile al problema irrisolto della periodizzazione, ma parimenti aiuta a compattare l’altro grande enigma: cos’è Europa?

Come abbiamo visto, supporre una territorializzazione del concetto di Medioevo, come suggerisce Lucien Febvre, lega la nascita del Medioevo con la nascita dell’Europa, che, contestualmente, sorgono dalla “secessione dell’Oriente” (Lucien Febvre) e dal passaggio dalla società mercantile romana alla “civiltà anticommerciale” (Henri Pirenne) medievale. Il ritiro forzato della civiltà cristiana, romano-barbarica, a Nord del Mediterraneo, provoca un trapasso economico. Il cambiamento di focus, di interessi, che è consustanziale alla chiusura delle arterie marine, diventa fondamento della civiltà europea, che è costretta a fare di necessità virtù, come spiega ancora Febvre: “Ma allora credete che questo sia un caso se questo regime della signoria, destinato a dominare l’Europa per secoli, si impianta fortemente e si generalizza esattamente nel momento in cui il Mediterraneo si chiude agli europei? Nel momento in cui cessa quasi completamente la circolazione commerciale; nel momento in cui i grandi porti, come Marsiglia, si vedono ridotti all’inazione, nel tempo in cui, in queste città, si bloccano i mestieri che lavorano per l’esportazione? Lavorare per l’esportazione è un espressione che non ha più senso. Ed è allora, è in questo modo che si stabilisce per tutta l’Europa un sistema ad economia chiusa, un regime di economia senza sbocchi che è precisamente il regime della signoria, quel regime signorile, dominicale, che ci ostiniamo a chiamare feudale”[5]

Europa quindi che nasce con una tara geoeconomica, un marchio del rinnegato. La risposta alla domanda succitata (cos’è l’Europa?) è quindi un rinvio  giudizio sulle mappe: l’Europa non è Mediterraneo, o almeno non solo, e non è nemmeno del tutto nord-Europa, dato che tenderà per sempre a rifluire verso quella Roma, sia come casa della latinità che come luogo della cattedra di Pietro.

mappa-del-mediterraneoCosa dice a noi europei il Mediterraneo, oggi?

Noi europei moderni, nati dal travaglio politico del secolo brevissimo, viviamo in un’ Europa che è ancora quella affettata dalla lama interpretativa di Pirenne. Un’ Europa che ancora soffre la secessione dell’Oriente, e che tiene dentro, tutt’ora, un’anima nata da un distacco forzoso ingessato dalla spaccatura dello Spazio Comune. La storia del Novecento, trampolino di lancio dell’attuale contesto per il quale Pirenne torna vivo e vegeto, è, d’altronde, l’inizio di quella faticosa riapertura del Mediterraneo, come lago occidentale, dopo la riapertura, nel tardo ‘600, come zona neutra tra l’Europa ascendente e l’Oriente calante. Il ‘900 che era nato in Oriente ancor prima con le grandi manovre crimeane e le ultime schermaglie suvoroviane tra Ottomani e russi, inizia con la disgregazione informale dell’Impero Ottomano, con le mani europee che si allungano sulle concessioni, commerciali e territoriali, dei sultani. Nel 1918, quando l’Impero Ottomano viene obliato, da Larachi a Beirut, il musulmano è domato e il Mediterraneo è davvero un giocattolo europeo. Si sente così sicuro di se, l’europeo, dopo aver esorcizzato il fantasma turco (ridotto ormai ad un fenomeno da baraccone) che si giocherà il Mediterraneo nella Seconda Guerra Mondiale, durante la quale esso diventerà l’arena tra la mediterraneità inglese (quella di Malta, di Gibilterra, di Cipro) e quella italo-tedesca, ben rappresentata dalla scommessa mussoliniana sul mare nostrum[6].

Il Novecento, di tutte le lunghezze, modifica l’inerzia del Mediterraneo e dei confini europei, rendendoli ad uso e consumo di Parigi, Roma, Berlino, Washington, ma non sposta molto più in la’ il confine reale. Sui confini greci brilla la civiltà e il benessere, ancora nel 1989, mentre sulle coste libanesi, o Siriane, ci si stupisce benevolmente di vent’anni di pace, con una certa indolenza eurocentrica.

Purtuttavia, nella crisi generalizzata delle architetture politiche internazionali seguita alla fine dell’Unione Sovietica, non pochi ripresero altri conurbazioni geostrategiche per ricomporre il discorso interrotto bruscamente dal restringimento a corsia unica rappresentato dal 1945.  Il Mediterraneo, ovviamente, costituì uno dei nuclei di codeste fascinazioni.

Sul Mediterraneo, inoltre, non si era mai smesso di scrivere e di riflettere. Così fin dagli abbocchi internazionali delle “alleanze latine”, passando per la ciclopica opera di Kojeve (di cui ha parlato con acume Davide Ragnolini su “Eurasia”, nel 2013[7]), le classi dirigenti europee, costrette mani e piedi alle impalcature comunitarie, hanno cercato anche la via della cooptazione mediterranea. L’Unione per il Mediterraneo, lanciata da Nicolas Sarkozy nel 2008, rientra in questi tentativi.

Cosa è dunque, il Mediterraneo, per noi, oggi?

Forse la definizione più calzante rimane quella di “sentiero interrotto”, soprattutto dalla Storia, che come nel sedicesimo e diciassettesimo secolo gli inferse un colpo tremendo spostando l’asse del Mondo sull’Atlantico e, dopo, all’Asia oramai globalizzata, oggi lo eleva di nuovo a frontiera (storica e geografica), a danno, questo giro, di noi europei. Dopo il giro di valzer delle “Primavere Arabe”, il Mediterraneo esce dal lungo sonno della seconda metà del Novecento e torna ad essere centralissimo. E’ qui che l’Europeo torna a confrontarsi con un sistema socio-economico che credeva ingessato ma che le stesse elite dirigenti europee non hanno avuto remore a sconvolgere per fini piccoli piccoli.

Il Mediterraneo quindi ritorna ad essere “Caoslandia”[8], o meglio, un suo antemurale. Gli sconvolgimenti mediterranei del quinquennio 2010-2015 (giusto per individuare un ciclo comodo) hanno invertito l’inerzia del Mediterraneo, cambiando anche l’inerzia di come sta, e cos’è l’Europa. Sia che si voglia leggere questo ciclo di crisi come fase di un più lungo declino Occidentale, sia che la si pensi come una formidabile contingenza di tre crisi concentriche, la casistica storica (frutto di un metodo logoro, quello comparativo diacronico) ci insegna che quando gira il Mediterraneo cambia l’Europa, e con l’Europa cambia il mondo. Il riempimento dello spazio mediterraneo di nuovi soggetti demografici (il “Popolo dei migranti”) in marcia verso l’Europa è soltanto la reificazione di processi antichi e futuri. Processi che nascono nel cuore dell’Africa,e che attengono a numeri ed economie di dimensioni abnormi. E quindi tanto più immanenti, in questo momento di irriformabilità del sistema-globo.

La spaccatura del Mediterraneo costituisce un punto di non ritorno, in almeno tre ambiti di indagine:

1) Dimostra, plasticamente, l’incapacità fattuale (od ideologica) delle elite europee di controllare, direttamente od indirettamente, la fragilità degli stati dell’arco della crisi, o, dove lo stesso Occidente sia stato un diretto collaboratore del Caos, a controllare una “balcanizzazione in vitro”. Questo è un aspetto di un corso lunghissimo che è ormai quello dell’erosione degli stati a favore di elementi sub o sovrastatali, i quali, rafforzandosi, mangiano ambiti di intervento agli Stati, rendendoli sempre più disarmati. La trasformazione del Mediterraneo in terra di confine, nelle crisi del 2011-2014 e successive ondate migratorie sono un passo imprescindibile sulla via dell’indebolimento dello Stato westphaliano.

2) Mentre il XX secolo ed il XXI secolo avevano costituito una tappa di “occidentalizzazione” dello spazio mediorientale, i primi anni del ‘2000 potrebbero invertire la rotta e rifratturare lo spazio culturale tra mondo islamico e mondo Occidentale, permettendo al primo di ricominciare la sua “acclimatazione” esterna nelle metropoli europee come soggetto distinto. Anche se le differenze tra invasione araba dell’ottavo secolo e attuali congestione caotica sono evidenti, uno spazio di confine non controllato ha sempre permesso alla cultura in condizione di inferiorità materiale di attestarsi su un limes, culturale e geografico, più avanzato. Le nuove posizioni turche (abbandono dell’idea di Europea e nuova “voglia di impero”) ed iraniane danno un’idea di un ripiegamento sul mondo musulmano, che adesso può svilupparsi, sulle lunghe distanze, senza un continuo patrocinio occidentale.

3) Questo quinquennio 2010-2015 sarà probabilmente ricordato come il momento di definitiva chiusura dell’epoca dell’unità cristiana e “bianca” dell’Europa. Senza eccessivi allarmismi antistorici le metropoli europee, che da sempre sono state avanguardia politica del continente tutto, dimostrano che il futuro culturale e socioculturale è frammentato, e sarà caratterizzato da una pluralità etnica e religiosa che l’Europa non ha mai sperimentato in tempi relativamente recenti.

Il ciclo del caos del 2011-2015 è il momento dal quale si rende fattuale, per l’Europa, una condizione culturale, etnica e religiosa diametralmente diversa da ciò che l’ha preceduta.

Da ciò si evince che questo lasso di tempo, variamente inteso e sicuramente criticabile, ha legittimità di essere una subperiodizzazione. Infatti le condizioni che alimentano la crisi non sembrano sul punto di estinguersi o di mutar pelle, ma, anzi, di nutrirsi ancora della lunga crisi che attraverserà la potenza occidentale.

Frontiera è civiltà: una riflessione sulla filosofia della Storia

In questo atteggiamento mentale da finis europae per chi ancora crede nella limpieza de sangre, è opportuno riflettere su queste parole: ” Tre volte l’Asia è stata sul punto di travolgere l’Europa: gli unni di Attila, i mongoli di Subotai, ed i turchi; ma, aggiungiamo subito, tre volte l’Europa è stata salvata dal supremo disastro, dalla forza delle sue armi e dal riaffermarsi di una sua coscienza collettiva che allora aveva il nome di Cristianità. L’era delle grandi scoperte geografiche, delle grandi conquiste extraeuropee ha rovesciato questa situazione. A mano a mano che l’Asia veniva presa alle spalle dall’espansione europea, le frontiere dell’Europa da frontiere vive si trasformavano in frontiere stabili: due secoli di sicurezza ci hanno abituati male: l’adattamento alla nuova situazione  è certo difficile: bisogna però farlo al più presto se vogliamo salvarci. […] Nel XIII secolo si poteva concepire che i cavalieri mongoli avrebbero potuto raggiungere le rive dell’Atlantico: e sarebbe stata la “finis Europae”: oggi l’Europa non finisce all’Atlantico: l‘Europa è rinata al di là dei mari”

e ancora: “Il concetto di frontiera viva, in sé interessante, andrebbe quindi precisato: da una parte una organizzazione stabile, storicamente fissata ad un determinato habitat; dall’altra parte un mondo misterioso, le cui intenzioni, le cui forze, la cui estensione non sono che molto imperfettamente conosciute: una frontiera da cui, all’improvviso, senza nessun segno premonitore, può emergere una massa di invasori: la loro vittoria non sarebbe il passaggio di egemonia da una nazione all’altra, nel quadro però sempre di una civiltà fondamentale, non sarebbe nemmeno la sostituzione di un tipo di civiltà con un altro, ma il sovvertimento di tutte le basi della vita stessa. […]”[9]

L’atteggiamento provocatorio dello storico, che, come in questo articolo, lancia una provocazione, non deve mai scostarsi dalla longue durèe braudeliana che deve animare chi studia l’uomo nel tempo: e’ una dura verità, ma le migrazioni sono contaminazioni quasi programmatiche. Frutto, certo di sprerequazioni innaturali, se le leggiamo alla luce dello sviluppo umano sin qui osservato, ma ciònondimeno esistenti, e quindi, come insegna Hegel, razionali.

Ma lo storico nel tempo è, paradossalmente, oggetto di studio di se stesso, in quanto ricevitore di segnali dal tempo. Il sapiente storico è quindi colui che contestualizza i segnali transeunti che vede e capta per renderli un dato da riutilizzare nella digestione del periodo storico che ha vissuto. In un circolo di conoscenza vizioso, lo Storico non deve quindi chiudersi gli occhi ed elevarsi sulla sua torre d’avorio sacrificando il suo essere nel tempo ma deve saperi utilizzare come dato storico e fattuale, o, se non altro, come controprova di enormi processi che lo attraversano. Le grandi migrazioni sono quindi un grande laboratorio di interfaccia morale, che avvicinano lo storico olimpico e quello militante, lo storico-scienziato e lo storico sperimentatore. Come eventi di enorme portata, anche in lunghezza temporale, essi sono opportunità per dare un nome alle inquietudini dei contemporanei senza darne più conto di quante non ne abbiano.

Non è quindi antistorico dire che il movimento di milioni di esseri umani è uno dei risultati di un certo sistema economico e di ripartizione della ricchezza, che investe il mondo “ricco” con una forza che non era lecito prevedere con lungimiranza. Il travaglio della società occidentale mediante l’iniezione di milioni di “diversi” (in tutta la gamma che questa parola comprende) è una catarsi prematura, l’inversione di tendenza da tutti temuta (da qualcuno invocata) e che finalmente è arrivata. Gli storici derubricheranno dolori, intellettuali e fisici, morali ed etici, tra i numeri e tra le tabelle. Durkheim, che chiedeva una “Storia senza nomi” sarà, giustamente, accontentato. Ma lo storico-persona che vive adesso rimarrà comunque “Tracciato” su ciò che afferma.

Dobbiamo, quindi, accettare l’immigrazione come un “dato”, immutabile? Anzi, addirittura ricoprirlo di virtù che non ha? O può lo storico, invece, armato di ciò che sa, inserirsi nel grande agone delle triangolazioni politiche e combattere fervidamente gli opposti “ignorantismi” dei “kalergisti” o dei boldriniani, tenendo a mente che i barbari “migranti” hanno contribuito alla distruzione di Roma ma hanno anche permesso le cattedrali, i castelli, il Barocco e la filosofia tedesca?

E’ una libertà che la Storia dà quella di confrontarsi arbitrariamente col passato, fuori da schemi puristici e realtà a metà. Ed è un dovere dello storico condurre per mano le interpretazioni dei fatti dove la vista, sul passato, è migliore.

Confrontare casi simili, ripetere esperimenti comparativi, tenere le unità riflessive e illuminare le divergenze, non è forse il nucleo concettuale della scientificità dello storico nella società? In questa ottica la tesi Pirenne è quindi un campo di prova accettabile dove confrontare un identità geoculturale in via di disfacimento con un “occupazione” fattuale degli spazi, geografici e soprattutto, emotivi e storici.

Lorenzo Centini

Fonte: http://ruberagmen.blogspot.it/2016/03/pirenne-o-della-moralita-dell...

***

Note

[1] Jacques Le Goff, “Il tempo continuo della Storia”, Parigi 2014
[2] Lucien Febvre, “L’Europa: Storia di una civiltà”, estratti delle lezioni tenute al Collegè de France nell’ a/c 1944/1945
[3] Henri Pirenne, “Maometto e Carlomagno”, Bruxelles 1937
[4] E’ la tesi di Christopher H. Dawson in “La nascita dell’Europa”, Londra 1932
[5] Lucien Febvre, “L’Europa: Storia di una civiltà”, estratti delle lezioni tenute al Collegè de France nell’ a/c 1944/1945
[6] “Il mondo, me scomparso, avrà ancora bisogno dell’idea che è stata e che sarà la più audace, la più originale, la più mediterranea delle idee” Benito Mussolini, “Il testamento politico“, citato in “Scritti politici di B. Mussolini”, a cura di Enzo Santarelli, 1979 (N.A: il testamento politico di Mussolini è stato più volte tacitato e sospettato di essere apocrifo)
[7] Davide Ragnolini, “L’Utopia geopolitica dell’Impero Latino”, uscito su Eurasia il 26/06/2013
[8] Definizione di Lucio Caracciolo in “La differenza tra l’Italia ed il Mondo” in “Che Mondo fa”, numero di Limes di Novembre 2013
[9] Pietro Quaroni, “Europa frontiera viva”, 1969, citato in L’Europa è da sempre una frontiera «viva»: ma non se lo ricorda, perché non sa più chi è”  di Francesco Lamendola, uscito su Arianna Editrice il 23/11/2015

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5. Gib Mihaescu -  Donna Alba

6. Liviu Rebreanu - Ion

7. Cella Serghi - Pinza de paianjen

8. Zaharia Stancu -  Descult

9. Henriette Yvonne Stahl - Intre zi si noapte

10.Mihail Sebastian - De doua mii de ani

11. George Calinescu Cartea nuntii

12. Cella Serghi Pe firul de paianjen…

Continuare

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