Tra il 1786 e il 1788, Goethe intraprese un lungo viaggio in Italia, percorrendo il nostro Paese da nord a sud. Sulla base dei suoi appunti e delle lettere scritte agli amici in Germania, ventotto anni dopo, nel 1816, pubblicò la prima delle tre parti dell’opera Viaggio in Italia. La seconda uscì l’anno successivo e la terza solo nel 1829. Gli anni del  soggiorno italiano furono decisivi per la formazione artistico-letteraria dello scrittore tedesco e proprio per questa ragione egli decise di dare forma compiuta a tutte le sensazioni provate in quel periodo e ai ricordi ormai lontani. Qui sono riportate le pagine in cui egli ricorda la visita ad alcuni monumenti e luoghi dell’antichità classica.

L’ARENA DI VERONA

Verona, 16 settembre 1786

L’anfiteatro è dunque il primo importante monumento dell’antichità che vedo; e com’è ben conservato! All’entrarvi, ma ancor più quando ne feci il giro alla sommità, stranamente mi sembrò di aver visto qualcosa di grandioso e allo stesso tempo proprio nulla. È anche vero che non è fatto per essere visto vuoto, ma anzi pieno di gente (…). Solo nei tempi antichi esso doveva produrre tutto il suo effetto, quando il popolo era ancor più popolo di quanto oggi non sia; un anfiteatro così è fatto apposta perché il popolo appaia imponente a se stesso e perché, anche, possa burlarsi di se stesso (…). Ogni volta che esso si vedeva così riunito, doveva stupire di sé medesimo; infatti, mentre per solito è abituato a vedersi correre alla rinfusa, a trovarsi in un trambusto tutto disordinato e indisciplinato, questo mostro dalle mille teste e dalle mille sensazioni, oscillante e vagante di qua e di là, si vede radunato in un nobile corpo, destinato a essere unità, avvinto e saldato in una massa, figura unica animata da un unico spirito. La semplicità dell’ovale è percettibile nel modo più gradevole allo sguardo di chicchessia, e ogni testa serve a dar la misura dell’immensità del tutto. Adesso, vedendolo vuoto, manca l’unità di misura, si è incerti se sia grande o piccolo. I veronesi debbono essere lodati per come hanno conservato quest’opera. È costruita in marmo rossiccio, corroso dalle intemperie; i gradini logori vengono, perciò, continuamente sostituiti uno dopo l’altro, e quasi tutti sembrano nuovi. Un’iscrizione rammenta Hieronymus Maurigenus e l’incredibile diligenza profusa da lui nel monumento. Del muro esterno non rimane che un tratto, e dubito anzi che sia mai stato completato. Le arcate inferiori, che sia aprono sulla grande piazza chiamata il Brà, sono date in affitto ad artigiani; fa non poca allegria vedere queste caverne piene di vita.

Goethe, Viaggio in Italia (Oscar, Mondadori, 1983)

Nell’immagine, un disegno dell’arena di Giovanni Battista Piranesi (1792)

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IL TEMPIO DI MINERVA AD ASSISI

Perugia, 25 ottobre 1786 (sera)

Giungemmo finalmente alla città antica; ed ecco, innanzi ai miei occhi, quell’insigne lavoro, il primo completo monumento ch’io mai vedessi. E’ un tempio di proporzioni modeste, come si conveniva a una città tanto piccola; ma così perfetto, così felicemente ideato, che potrebbe rifulgere in qualsiasi luogo. Anzitutto qualcosa della sua posizione. (…) Il tempio è leggiadramente situato a mezza costa, in un punto in cui si incontrano due colli sopra una spianata che oggi si chiama “la piazza”. Anche questa è leggermente in pendio e vi s’intrecciano quattro strade, che formano una croce di S. Andrea molto pronunciata: due dal basso in alto, e due dall’alto in basso. Probabilmente, in antico non esistevano le case che ora sorgono dirimpetto

al tempio e impediscono la vista. Se queste non esistessero, l’occhio vi spazierebbe verso mezzogiorno nella più splendida regione e nel tempo il sacrario di Minerva si vedrebbe da tutti i suoi lati. La rete delle strade è probabilmente antica; perché esse, infatti, seguono la  configurazione del monte. Ora il tempio non occupa il centro della piazza, ma è situato in modo che, visto di scorcio, per chi sale dalla parte di Roma si presenta assai graziosamente. Non si dovrebbe disegnare soltanto l’edifico, ma anche la sua felice posizione.

Goethe, Viaggio in Italia, BUR, Rizzoli (2004)

Nell’immagine, il tempio di Minerva dipinto da Giotto (XIII secolo).

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LA VALLE DEI TEMPLI DI AGRIGENTO

Girgenti, mercoledì 25 aprile 1787

Il Tempio di Giunone sorge attualmente su un dorso rupestre in disfacimento; a partire da esso le mura si stendevano in linea retta verso levante su uno strato di calcare, che domina a picco la piana costiera lasciata dal mare dopo aver dato origine in varie epoche a queste rocce e dopo averne dilavata la base. Le mura, dietro cui appariva la sfilata dei templi, erano in parte scavate nella roccia, in parte costruite con materiale della roccia stessa. …  Il Tempio della Concordia ha resistito ai secoli; la sua linea snella lo approssima al nostro concetto del bello e del gradevole, e a paragone dei templi di Paestum lo si direbbe la figura di un dio di fronte all’apparizione di un gigante….

La sosta successiva fu dedicata alle rovine del Tempio di Giove. Esse si stendono per un lungo tratto, simili agli ossami d’un gigantesco scheletro, popolate e spezzettate da tanti piccoli poderi divisi da siepi, folte d’alberi più o meno alti. In questo cumulo di macerie ogni forma artistica è stata cancellata, salvo un colossale triglifo e un frammento di semicolonna d’ugual proporzione … Il Tempio di Ercole, invece, lascia ancora scorgere tracce dell’antica simmetria. Le due file di colonne che fiancheggiavano il tempio dai due lati giacciono a terra nella stessa direzione nordsud, come se si fossero rovesciate tutte insieme, le une verso l’alto e le altre verso il basso d’una collina che si direbbe sia stata prodotta dal crollo della cella. Tenute insieme probabilmente solo dalla trabeazione, le colonne precipitarono di colpo, forse in conseguenza d’un violento uragano, e ora sono distese allineate, spartite nei blocchi che le componevano. … Il Tempio di Esculapio, ombreggiato da un bellissimo carrubo e pressoché murato entro una casa contadina, offre un grazioso quadretto.

Goethe, Viaggio in Italia (Oscar, Mondadori, 1993)

Nell’immagine, la valle dei templi in un dipinto di W.L. Leitch.

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IL TEATRO GRECO DI TAORMINA

Taormina, 7 maggio 1787

Superata l’alta parete di roccia che s’innalza a picco non lontano dalla spiaggia, si trovano due roccioni collegati da un semicerchio, la cui forma, qualsivoglia fosse per natura, è stata trasformata dall’arte in modo da farne un emiciclo ad anfiteatro destinato agli spettatori; con l’aggiunta di muri e d’altri annessi in mattoni si ottennero i corridoi e i porticati necessari. Ai piedi e trasversalmente all’emiciclo a gradini fu costruita la scena, unendo le due rocce e completando così una gigantesca opera d’arte e di natura. Se ci si colloca nel punto più alto occupato dagli antichi spettatori, bisogna riconoscere che mai, probabilmente, un pubblico di teatro si vide davanti qualcosa di simile. Sul lato destro si affacciano castelli dalle rupi sovrastanti; più lontano, sotto di noi, si stende la città e, nonostante le sue case siano d’epoca recente, occupano certo gli stessi luoghi dove in antico ne sorgevano altre. Davanti a noi l’intero, lungo massiccio montuoso dell’Etna; a sinistra la sponda del mare fino a Catania, anzi a Siracusa; e il quadro amplissimo è chiuso dal colossale vulcano fumante, che nella dolcezza del cielo appare più lontano e più mansueto, e non incute terrore. Se poi, distogliendoci da questa veduta, ci volgiamo verso i corridoi alle spalle del pubblico, a mano manca abbiamo tutti i dirupi fiancheggianti la riva sulla quale si snoda la via per Messina; gruppi e balze di scogli nel mare e, lontanissima, la costa calabra, che solo uno sguardo attento riesce a distinguere dai morbidi ammassi di nuvole. Ci portammo in basso fino alla scena e sostammo fra i suoi ruderi, i quali meriterebbero che un abile architetto desse prova, almeno sulla carta, delle sue capacità di restauratore.

Goethe, Viaggio in Italia (Oscar, Mondadori, 1993)

Nell’immagine, il teatro greco di Taormina in un dipinto di Paul Marie Bret (1902-1956).

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