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cultură şi spiritualitate

La singolarità fisiognomica di Socrate: il superamento dell’eroe tragico

Pubblicato su 6 novembre 2016

L’ambiguità della vistosa bruttezza e del singolare portamento di Socrate produce due linee interpretative: da un lato vi è chi vede una corrispondenza deterministica tra l’aspetto esteriore e la personalità interiore nei termini di un giudizio di valore dello stesso tipo che fa trasparire dall’esterno l’interno (fisiognomica antica fino a Lombroso: Socrate è esteriormente orrendo, dunque sarà interiormente stimolato dagli istinti più bassi come un criminale, in linea con l’ideale greco della kalokagathia per cui ciò che è bello è anche buono), dall’altro vi è chi scorge una corrispondenza nei termini di una singolarità sia esteriore che interiore, che tuttavia non determina un’identità tra il contenuto estetico esteriore e la segretezza interiore (come scrive Maria Michela Sassi circa l’idealizzazione di Erasmo: “i tratti ridicoli della figura silenica albergano una divina grandezza spirituale”). Nietzsche è il pensatore che meglio esprime ed estremizza la prima tendenza: inizialmente intrigato dall’ambiguità del Sileno, dopo gli studi sulla tragedia, precisamente nel Crepuscolo degli idoli, rileva dall’episodio di Zopiro che dagli orribili tratti esteriori si evince una degenerazione interiore, ossia l’eliminazione degli istinti più vitali attraverso la ragione. Mentre Erasmo da Rotterdam, avvicinando Socrate a Cristo, in quanto anche questi poteva apparire esteriormente misero, idealizza la manchevolezza del bello esteriore, elevandola a ricchezza interiore: il senso di ciò viene ben espresso da San Paolo “(Cristo) da ricco che era, si è fatto povero per voi, perchè diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”, e così Socrate con la sua miseria di aspetto, abiti e portamento avrebbe portato coloro che erano ben disposti ad oltrepassare l’immediatezza, l’apparenza, l’esteriorità in vista di un’interiorità ricca, segreta, virtuosa, che non traspare nell’immediatezza estetica, non solo con il suo insegnamento ed il suo singolare dialogare, ma anche con il suo stesso aspetto. Risolvere l’ambiguità è dunque una questione di prospettiva filosofica: se Nietzsche intende far emergere come il dominio degli istinti porti alla décadence, ci restituirà un Socrate dall’anima tiranna, che domina e opprime ciò che (secondo lui) vi è di meglio nel tragico; al contempo se Erasmo intende restituirci un Socrate cristiano, ci restituirà la figura del Sileno, la stessa di cui Platone ci parla nel Simposio. Pertanto quest’ultima linea di testimonianze (Platone-Erasmo) mi sembra la più decisiva nel rilevare l’aspetto dirompente della sua singolarità, poiché Nietzsche, rilevando l’innovazione nei termini di una décadence negativa, si pone in una prospettiva che rende vano ogni aspetto positivo della figura di Socrate.

Ritengo opportuno risolvere il contrasto profondo tra kalokagathia greca e il suo oltrepassamento in Socrate nei termini del contrasto tra l’eroe tragico ed il cavaliere della fede, postulato da Søren Kierkegaard compiutamente in Timore e Tremore.

Lo scrittore religioso danese descrive sè stesso come lacerato da una “sproporzione tra anima e corpo” che sarà sempre il suo “pungolo nella carne”: ad una fragilità fisica corrisponde un’acutezza spirituale. La passione della sua esistenza viene trasposta nel suo pensiero soggettivo nel momento in cui rivela il salto qualitativo dalla sfera etica a quella religiosa, ove compaiono due figure singolari, quelle dell’eroe tragico e del cavaliere della fede (Abramo), che si sono appropriate rispettivamente della verità circa l’esistenza etica e della verità circa l’esistenza religiosa. Rispetto all’esteriorità, Kierkegaard scrive: “Nel momento stesso in cui considero il cavaliere della fede (…) mi avvicino un poco, sorveglio ogni suo minimo per cercar di sorprendere qualcosa di un’altra natura, un minuscolo segno telegrafico trasmesso dall’infinito, uno sguardo, un’espressione della fisionomia, un gesto, un’aria melanconica (…). Macchè! Nulla. Lo esamino dalla testa ai piedi, cercando la fessura attraverso la quale si riveli l’infinito. Nulla! (…) E’ completamente in questo mondo, come nessun bottegaio potrebbe esserlo di più. Si rallegra di ogni cosa, si interessa di tutto; ed ogni volta che lo si vede intervenire in qualche luogo, lo fa con la perseveranza caratteristica dell’uomo terrestre”.  Si evince che l’aspetto prosaico del cavaliere della fede nasconde la grandezza dell’anima, non comunicabile all’esterno, incompresa, a differenza dell’eroe tragico, che, come Agamennone, primus inter pares, sacrifica un dovere minore per uno maggiore, la figlia Ifigenia per il bene comune dell’esercito acheo, gesto riconosciuto e compreso dall’esterno. Siamo nel cuore del paradosso della fede: vi è un’interiorità incommensurabile all’esteriorità, non misurabile con criteri comunemente accettati ed esterni, solo l’individuo in quanto tale, senza autorizzazione dell’universale (inteso come regole comunemente accettate dallo Stato) può divenire cavaliere della fede. É possibile scorgere un’analogia tra Socrate, il cavaliere della fede e Kierkegaard stesso limitatamente alla frattura tra l’aspetto esteriore e la grandezza interiore, sebbene l’analogia potrebbe essere, non forzatamente, estesa alla frattura tra individuo e Stato e tra singolare e universale nell’ambito della condanna a morte di Socrate; analogia i cui limiti sono tutti ravvisabili sotto l’aspetto prettamente cristiano del rapporto Assoluto con l’Assoluto. Secondo il Simposio platonico e Senofonte, Socrate sarebbe stato caratterizzato da un naso schiacciato, da grosse labbra ed occhi sporgenti, Aristofane testimonia che egli camminasse scalzo, esibendo uno stile di vita insano, Alcibiade nel Simposio conferma che Socrate fosse refrattario ad abiti adeguati e calzature persino d’inverno: si tratta di elementi che rendono all’apparenza segreta l’interiorità, e che costringono l’interlocutore ad un vero e proprio aut-aut: o si compie l’ascesi che porta al superamento della contingenza esteriore, o si rimane confinati al sistema di valori precostituito dell’antichità greca, per il quale Socrate non avrebbe alcuna virtù se non quella di suscitare un riso (Aristofane, Le nuvole). Così come secondo Kierkegaard è un compito estremamente difficile comprendere l’emblema del cavaliere della fede (Abramo), così è difficoltoso risolvere l’ambiguità del Sileno (Socrate). Entrambe le figure, dunque, si nutrono della loro ambiguità, della loro segreta interiorità, nel rapporto con l’altro, che per lo più sfocia in un’incomprensione da parte dell’altro (tentativo fallito di Alcibiade nel Simposio) per far riflettere sulla tensione tra essere e apparire. Proprio per questo Socrate nel Fedro rivolge le sue preghiere a Pan per far sì che “tutte le cose che (gli) vengono dall’esterno siano in armonia con quanto (ha) dentro di sè”: in termini kierkegaardiani vuole che l’etica, che essenzialmente si proietta verso l’esterno, venga ricompresa nella scelta di sè, vuole che la sua singolarità sia compresa da coloro che vivono la tensione tra apparire ed essere in modo da renderli risoluti (Socrate educatore spirituale).

Bibliografia:

– “Indagine su Socrate: persona, filosofo, cittadino” di Maria Michela Sassi (II L’eccezione fisiognomica) 

“Lettera ai Corinzi” di Paolo di Tarso (2Corinzi 8,9)

-“Diario” di Søren Kierkegaard (IX A 74)

-“Timore e Tremore” di Søren Kierkegaard (pagine 61,62)

-“Fedro” di Platone  (279 b-c)

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