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Francesco del Cossa, Il trionfo di Minerva (1467-1470)

Aracne è giovane, ma già esperta tessitrice: così brava che le ninfe la vengono ad ammirare. Non è bello solo ciò che crea, ma anche il suo modo di lavorare. Orgogliosa di sé, chiama a gareggiare Atena, a cui non riconosce il primato nell’arte della tessitura. La dea si finge vecchia e le consiglia di chiedere perdono per la sua sfrontatezza. Ma Aracne la offende e di nuovo chiama Atena alla sfida. Questa torna al suo aspetto e tra le due inizia la gara. Che cosa ritrae Pallade Atena, tessendo? Con che lavoro risponde Aracne? Che ne sarà di lei?

La descrizione delle immagini tessute dalle due sfidanti è un esempio di miti nel mito, una specie di matrioska letteraria!

IL LAVORO DI ATENA (1/3)

“Pallade effigia il colle di Marte sulla rocca cècropia

e l’antica contesa sul nome da dare alla terra.

Dodici numi, con Giove nel mezzo, su seggi eccelsi

siedono con maestosa gravità: il volto rivela

chi tra gli dei sono; regale è l’aspetto di Giove.

Poi dà forma al dio del mare, che, ritto in piedi, colpisce col lungo tridente

i duri scogli e dal mezzo dello squarcio nella roccia

fa balzar fuori un cavallo indomito, per reclamare così la città.

A sé assegna uno scudo, un’asta appuntita,

un elmo sulla testa, mentre dall’egida è protetto il petto; e, percossa

dalla sua lancia, rappresenta la terra,

che genera la pianta d’ulivo, dai riflessi d’argento, e le sue bacche;

poi dà forma agli dei stupefatti; la Vittoria conclude l’opera.

Ma perché la rivale nella gloria comprenda da esempi

ciò che la attende per l’insensata audacia,

aggiunge ai quattro angoli altrettante sfide,

vivaci nel colore, nitide nei particolari.

Un angolo è occupato da Ròdope di Tracia ed Emo,

ora monti innevati, un tempo esseri viventi,

che per sé usarono i nomi degli dei maggiori.

Un’altra parte mostra la triste sorte della madre

dei Pigmei: battuta in gara, Giunone ordinò

che si mutasse in gru e alle sue genti facesse guerra.

Poi effigia Antigone, che una volta osò competere

con la consorte di Giove potente, e la regale Giunone

mutò in uccello: né Ilio le impedì

né il padre Laomedonte che, spuntate le penne,

come bianca cicogna si applaudisse

battendo il becco. L’ultimo angolo

ospita Cìnira, privo delle figlie;

quello, abbracciando i gradini di un tempio, carne

della sua carne, e riverso su una pietra, sembra che pianga.

Contorna i lembi esterni con rami d’ulivo, emblema di pace:

è la sua pianta a concludere l’opera”.

Ovidio, Metamorfosi IV, vv. 70 – 102.

Nell’immagine, Ingres, Giove e Teti (1811).

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LA TELA DI ARACNE (2/3)

“Aracne invece disegna Europa ingannata dalla forma

di un toro, e diresti che vero è il toro, vere le onde;

la si vedeva volgere lo sguardo alle terre lasciate

e invocare le compagne, aver paura d’essere toccata

dall’acqua che la assale e ritrarre timorosa le gambe.

Ha raffigurato Asterie ghermita con forza da un’aquila;

poi Leda, che si sdraia sotto le ali di un cigno;

ha aggiunto anche come Giove, fingendosi satiro,

concepì due gemelli con la bella figlia di Nicteo;

come divenne Anfitrione, per averti, o Alcmena di Tirinto;

come, fattosi oro, ingannò Dànae, e fuoco, la figlia di Asopo;

Mnemosine, trasformato in pastore, e la figlia di Cerere, mutatosi in serpente variopinto.

Ha messo anche te, o Nettuno, in aspetto di torvo giovenco,

mentre giaci con la giovane figlia di Eolo; in Enìpeo

generi gli Aloìdi, inganni come ariete la figlia di Bisalte;

ti conobbe destriero la dolcissima madre delle messi,

dai biondi capelli; ti conobbe, in forma di uccello, la madre del cavallo alato,

che ha serpi per capelli, e delfino ti conobbe Melanto.

L’aspetto di tutti loro e quello dei luoghi

bene ha ritratto. C’è Febo in veste di contadino,

e come a volte assunse penne di sparviero o pelle di leone,

o, da pastore, ingannò Isse, figlia di Macareo.

C’è come Libero, mutato in uva, sedusse Erìgone,

come Saturno, divenuto cavallo, generò il biforme Chirone.

L’estremità della tela, orlata da bordo sottile,

mostra fiori intrecciati a viticci d’edera.

Ovidio, Metamorfosi IV, vv. 103-128.

Nell’immagine, Diego Velàzques, La favola di Aracne o Le filatrici (1657).

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LA PUNIZIONE DI ARACNE (3/3)

“Neppure Pallade o l’Invidia avrebbero potuto sfregiare

quell’opera. Ma si dolse del successo la bionda guerriera,

fece a brandelli la stoffa variopinta con i misfatti degli dei

e, tenendo la spola fatta col legno del monte Citoro,

tre, quattro volte la fronte colpì ad Aracne, figlia di Idmone.

Non lo resse la sventurata e, pazza, con un cappio si legò

il collo: vedendola pendere, Pallade, impietosita, la sorresse

e disse così “Vivi, dunque, ma appesa, sfrontata,

e perché tu non abbia futuro sereno, la stessa pena

ricadrà sulla tua stirpe e su tutti i tuoi discendenti”.

Poi, nell’atto d’andarsene, la cosparse di succhi d’erba

infernali, e subito, a contatto col malefico filtro,

le caddero i capelli e con essi il naso e le orecchie;

la testa si fa minuscola ed è piccolo anche il corpo, tutto quanto;

sui fianchi sottili zampe al posto di gambe spuntano;

il resto lo occupa il ventre, da cui quella emette

un filo e, ormai ragno, tesse la tela come faceva”.

Ovidio, Metamorfosi IV, vv. 129 – 140.

Nell’immagine, Pieter Paul Rubens, Minerva (Pallade) e Aracne (1636).

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