A Vigolo Marchese, piccolo centro rurale tra la pianura emiliana e il rilievo dei colli appenninici, la mole possente della chiesa di San Giovanni può essere presa a simbolo di quella che potremmo chiamare l’“ansia romanica”. La basilica è austera e massiccia. Forse data al 1008, anno in cui fu edificata in loco una grande chiesa per volere di un marchese Oberto; o forse è l’esito della ricostruzione avvenuta, come qualcuno ipotizza, dopo il grande terremoto del 1117.
Comunque sia, la chiesa di San Giovanni appare fuori misura rispetto al villaggio in cui sorse; e la sproporzione tra l’insediamento religioso e il nucleo abitato doveva essere ancora più evidente nel medioevo, quando intorno alla basilica, oltre all’oratorio a pianta centrale tutt’ora esistente sul lato nord, sorgevano un vasto monastero e un “hospitale” per i pellegrini di passaggio. La chiesa impressiona per la sua mole e la sua imponenza. Sulla facciata, tripartita secondo il classico schema, i tre portali sono decisamente piccoli, e i massicci contrafforti sembrano volerla piantare a terra contro ogni possibile assalto; più su, due piccole finestre, e nessun’altra apertura a interrompere il pieno continuo della muratura. Lungo i fianchi, la stessa assoluta predominanza del pieno su vuoto fanno somigliare la basilica ad una gigantesca arca appoggiata sulla piana verde. Pieno e pesante il campanile, una torre militare che doveva essere in origine ancora più tozza.
Anche considerata e osservata nella sua attuale solitudine, la chiesa di Vigolo Marchese, dunque, fa pensare. E fa pensare il fatto che chi la costruì mise in essa più pietre di quante non ne erano servite per edificare l’intero centro abitato, e anche le case e la foresteria e il refettorio dei monaci, tutte strutture in buona parte costruite ancora in legno.
Ma Vigolo Marchese non costituisce un caso raro. Molte altre sono le chiese sorte nel tempo romanico, con la stessa proporzione, in fianco a centri abitati minori. Esse devono aver prodotto lo stesso effetto che fa oggi vedere, per fare solo alcuni esempi, la grande mole della basilica di Santa Maria “a piè di Chienti”, appoggiata con la sua gigantesca zona absidale sui campi alluvionali di Montecosaro, nelle Marche, o i resti della grande abbazia di Murbach, che si erge imponente anche se mutila, tra le foreste a sud di Strasburgo, dove la Francia già parla tedesco.
Questi e tanti altri colossi posati sui prati o dominanti nei villaggi dell’Europa raccontano ancora di quel tempo prepotentemente bisognoso di salvezza che chiamiamo “medioevo romanico”. Ci dicono innanzitutto che in questo tempo le chiese sorsero grandi – guardate quella di Saint-Vigor a Cerisy-la-Foret, che sembra anch’essa un dinosauro in riposo tra i campi della Normandia sferzati dal vento, non lontana dal mare – e insieme ci dicono che ne sorsero moltissime: “Piccoli villaggi – scrive Roberto Lopez – costruirono fino a dieci chiese, città dai cinque ai diecimila abitanti ne edificarono parecchie decine, monasteri come Saint-Riquier e San Gallo sorpassarono in superficie e popolazione molte città dell’alto medioevo” (La nascita dell’Europa, p. 164)
Più ancora delle famose cattedrali cittadine, o della grandi chiese di pellegrinaggio, questa chiese “sole” e inspiegabili ci parlano del segreto sentire dell’uomo romanico. Ci dimostrano come – a Vigolo Marchese, a Murbach, in Normandia, e dovunque si pregasse in quei secoli il Dio dei cristiani – quell’era di pietra e fede era segnato dalle chiese, dall’ansia di costruire chiese, e dalla consuetudine di costruirle in un certo modo. Quest’ansia e questo modo di costruire, assolutamente legati, sono l’essenza dei secoli romanici e dell’architettura che essi hanno saputo produrre.
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