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cultură şi spiritualitate

giovedì 16 gennaio 2020

Da Gian Mario Villalta
Fotografie Di Luciano Gaudenzio - L’Altro Versante
La brillante performance comunicativa è oggi un valore indiscusso. Ma non è sempre stato così.
La brillante performance comunicativa è oggi un valore indiscusso. Ma non è sempre stato così.
FOTOGRAFIA DI LUCIANO GAUDENZIO - L’ALTRO VERSANTE

Articolo estratto dal Volume 1 della collezione “Le Montagne incantate”

La facilità di parola, la brillante performance comunicativa appare oggi come un valore indiscusso. Non è sempre stato così. Presso i latini loquax non è certo un complimento, così come nelle civiltà arcaiche di collina e di montagna l'uomo che parla troppo non gode di buona considerazione. Cesare Pavese, nella poesia I mari del sud sintetizza: «Tacere è la nostra virtù». E quando non si tace, si parla poco, in una lingua che non concede arzigogoli: Dante Alighieri, nella sua ricerca di un'amabile lingua per la poesia tra i volgari d'Italia, si accosta al friulano e subito se ne ritrae annotando che «"Ces fastu" crudeliter eructant ».

Si può tradurre, un po' addolcendo, così: «Bruscamente prorompono: "Ce fastu?", che fai? ». Lingue dure, quelle alpine e dei territori che hanno in vista le Alpi, lingue che non richiedono lo scilinguagnolo dell'uomo della città o del borgo, oppure dei porti di mare, né compare la danza delle mani e delle dita che accompagna un ricercato discorso. Un parlar breve, sentenzioso, muovendo appena gli organi fonatori, al massimo alzando una mano con lentezza o sollevando con la stessa lentezza di sotto in su la testa. Al "foresto" che vanta una fiorita loquela e ricama con sapienti movenze delle mani le sue frasi, può capitare di sentirsi dire: «Tu te mena le man par gnent»: «Muovi le mani inutilmente», espressione che contiene una velata minaccia dato che sottintende un "menare le mani" che non significa soltanto lavorare.

Quel verbo lavorare, quella parola lavoro, che vengono sempre prima di tutto. Un lavoro duro, spesso solitario,  dove c'e la distanza tra i casolari, le baite, le malghe, c'è la frugalità del cibo e della tavola, e l'uso di un malcompreso latino per la comune liturgia religiosa, in un ambiente in cui sovente l'ombra cade improvvisa a metà pomeriggio e la collina o il monte si stagliano neri contro un cielo ancora azzurro; il terreno aspro, i sentieri faticosi da percorrere e da tenere in ordine, i coltivi fertili da strappare ai sassi, l'estasi indicibile di un mattino di luce. Ecco da dove vengono i silenzi, dove si forma la parsimoniosa durezza delle parole.

È antica l'opinione che vi sia un legame tra l'ambiente in cui vivono gli esseri umani e la conformazione dei loro corpi. Un esempio su tutti lo ricaviamo da Tacito, che sui Britanni scrive: «Positio caeli corporibus habitum dedit» (Agricola, XI). La traduzione più viva potrebbe essere: «II clima ha informato i corpi». Due osservazioni: la prima è che caelum ha un ampio spettro di significati, che traduciamo con clima, ma anche con aria, atmosfera, mondo; e poi va detto che la parola habitus richiederebbe un trattato: è corporatura e portamento, ma tra le molte altre interpretazioni può valere come espressione, modo di fare, modo di vestire, fino a significare una disposizione d'animo.

L'idea che tra clima e cultura ci sia una relazione è intuitiva, e confortata da osservazioni di  carattere antropologico: quel muovere le mani di cui si dice più sopra sarà infatti agevole per i climi caldi, dove i corpi sono liberi da indumenti, mentre le mani ricoperte di muffole risulteranno certo meno espressive. A maggior ragione se le braccia sono strette in un pesante pastrano. I primi antropologi notarono che gli abitanti nativi dell'Artico non muovevano braccia e mani parlando: erano imprigionate nella pelle di foca che Ii proteggeva dai molti gradi sotto lo zero.

Quello che dice Tacito però è qualcosa di più, mi pare: il clima, l'ambiente, le forme di vita che vi si praticano, informa (ovvero sviluppa in una determinata forma) anche il corpo. E in Tacito non c'è di sicuro alcuna ombra di razzismo. Che cosa dobbiamo intendere? Forse ci soccorre il filosofo Peter Sloterdijk, che discute di antropotecnica, nozione alla quale collega la pratica, l’esercizio fisico, intesi nella forma dell'apprendimento, della ripetizione e del perfezionamento di procedure che comportano un coinvolgimento del corpo. Sloterdijk ci aiuta a fare un passo importante: là dove l'antropologia dà conto di sistemi simbolici relativi a fattori fisici, psicologici, sociali di una collettività, il filosofo tedesco permette di fissare lo sguardo sul singolo individuo. E di scoprire che l'apprendimento, la ripetizione e il perfezionamento di un gesto diventano habitus, atteggiamento, certo, ma anche corporatura: muscoli, tendini,  contrazioni e flessioni acquisite e divenute qualcosa di simile a una seconda natura, ovvero immediatezza e spontaneità.

Non c'è dubbio che alla fine dell'adolescenza un essere umano non abbia più nulla di "naturale", inteso in senso puramente biologico, ma potrà avere una spontaneità, che è il frutto di una complessa educazione ricevuta fin dai primi giorni di vita. Stare in piedi, seduti o sdraiati non è mai soltanto naturale, come non è soltanto naturale stare attenti o distratti, stare zitti o parlare, sollevare una mano al volto o sopra la testa, portare il cibo alla bocca, trattare le deiezioni. La cura parentale educa l'animale uomo fin dalla nascita e lungo tutto il successivo sviluppo che porta alla consapevolezza del comportamento. Ma si pensa raramente, quando si parla di educazione, ai corpi, alla forma che assumono al di fuori dello sport, mediante l'uso dei più comuni gesti sociali.

Non si pensa mai che anche i volti possano assumere tratti particolari dovuti all'uso sociale dei muscoli facciali, proprio il "fare facce" secondo ii modo comune di esprimere il disgusto, l'incredulità, l’approvazione, la sorpresa ecc. Tanto meno si immagina che i volti possano prendere forma dall'uso dei muscoli fonatori, ovvero dalla lingua. Era forse l'ultima primavera del secolo scorso, o la prima di quello attuale, in un giorno di sole accompagnavo il poeta Andrea Zanzotto durante una delle sue abituali passeggiate pomeridiane di ricognizione. Compiva sempre lo stesso percorso, ispezionando alberi, arbusti, erbe matte, per una stradella che scendeva verso un campo aperto e poi risaliva fino all'inizio del movimento collinare, che proprio alle spalle di Pieve di Soligo mostra il suo drappeggiato manto avvolgente.

Non c'era da stupirsi se il poeta aveva scritto in una sua lontana poesia: «Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio/ qui volgere le spalle» (Ormai, in Dietro il paesaggio, 1951). E dopo esserci avvolti in quel manto di colline con gli occhi della mente, ecco che volgendo le spalle appariva la corona dei monti, con le sue punte e i suoi fianchi scaleni orlati di neve, ai quali Zanzotto aveva dedicato il verso «Mai Mancante Neve di Metà  Maggio»  (Meteo, 1996), dove le M e la N evocano le punte dei monti schierati sull'orizzonte. Fino a questo punto, infatti, Andrea Zanzotto percepiva la sua appartenenza al mondo che lo ospitava e si offriva al suo sguardo: fino a sentirlo parte dei suoi gesti, a percepirne e mimarne la presenza nelle lettere dell'alfabeto che componevano la sua poesia.

In un giorno come questo, mentre si parlava di poesia francese, mi venne l'idea di fare lo spiritoso e dichiarare che i poeti francesi avevano tutti uno strano scivolo anteriore delle labbra e del mento. Usai proprio la parola "scivolo". Invece di ridere, Zanzotto mi fece notare che conoscevo solo poeti francesi anziani. Non capivo. Aggiunse che era una lingua che spostava le labbra e il mento in avanti, e per questo con gli anni si veniva a formare quella specie di "scivolo". E poi si mise a illustrare le facce dei bellunesi e quelle, invece, degli abitanti della sinistra Piave "bassa", per mostrarmi come la variante della pronuncia veneta modificava la postura del viso.

Più tardi scoprii che il filosofo tedesco Martin Heidegger aveva scritto in proposito pagine impegnative, collegando la terra e la lingua in termini di profondo legame, ma seguendo un percorso non facile da esplicitare. Egli nega interesse agli organi fonatori in nome di qualcosa di più profondo, per evitare qualsiasi meccanicismo; d'altra parte, però, escludendo i corpi, rende il legame tra la terra e la lingua carico di sensi poetici e di suggestioni del pensiero difficilmente riconducibili a una chiara ragione.

Oggi che non facciamo fatica a pensare come la lingua sia incorporata nell'organismo e l'uomo sviluppi se stesso anche in relazione a certe caratteristiche fisiche in un determinato ambiente, attraverso le forme di vita a cui viene educato e che egli stesso fa proprie, oggi che tutto questo è abbastanza certo, che vi sia un legame tra l'ambiente, la lingua e la faccia che abbiamo non appare più una totale sciocchezza. Quante volte abbiamo letto o sentito dire frasi come «un volto scolpito nella pietra delle sue montagne», oppure «aveva nello sguardo ii colore del fiume del suo paese», o ancora «era un uomo silenzioso, come era silenziosa la valle dove viveva». Se crediamo un poco a quanto scritto in precedenza, queste osservazioni "poetiche" possono valere. Anzi, potevano avere un valore.

Certo, perché tutto ciò ha avuto un tempo di scadenza, che possiamo situare in tre tappe. La prima si colloca verso la metà dell'Ottocento, quando la spinta della modernità arriva a dare notizia di sé ovunque e a poco a poco trasforma società e vite individuali. La seconda tappa coincide con la fine della Seconda guerra mondiale, dopo la quale vediamo scomparire, a differente velocità, ogni tradizione - e di conseguenza ogni legame specifico di questo genere tra ambiente e corpo. La terza tappa arriva durante l'ultimo decennio del Novecento, quando la globalizzazione compie la sua ufficialità omologatrice nel web e la tradizione diventa una nicchia del mercato globale.

Per quanto riguarda i paesaggi di mia conoscenza, dal Tirolo al Bellunese e ancora meglio le Prealpi e le Alpi della regione Friuli-Venezia Giulia, il processo è stato lento nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, per subire un'accelerazione improvvisa e non arrestabile alla meta degli anni Settanta. In Friuli, in particolare, è stato il terremoto del 1976 a inabissare la tradizione e a portare grandi ondate di modernità. E oggi chi se ne ricorda, o chi incrocia le foto di quel passato, non può non sorridere o rabbuiarsi di fronte a quei volti fatti di legno e pietra, segnati come i sentieri che si inerpicano, oscuri come l'ombra che scende presto nel pomeriggio o illuminati dal sole delle vette.

Volti in cui si indovina (o si vuole indovinare) un'appartenenza alla terra, un legame forte, non mediato, tra il cielo, il paesaggio, la casa, il cibo, la lingua e il viso. C'è nostalgia? Sì, è la stessa nostalgia che quegli uomini avevano per la vita istintiva dell'animale, per la notte e per il fuoco. Una nostalgia dell'originario che assume sempre nuove forme a mano a mano che dall’origine ci si allontana.

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