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Eugenio Montale, Nobel per le semplici cose

Il 10 dicembre 1975 l’accademia di Stoccolma premia il poeta genovese, che nella sua resistenza silenziosa al "male di vivere" trasforma le parole quotidiane in un linguaggio di speranza


https://www.storicang.it/a/eugenio-montale-nobel-per-le-semplici-co...
Eugenio Montale, premio Nobel per la Letteratura nel 1975

Eugenio Montale, premio Nobel per la Letteratura nel 1975

Foto: Cordon Press

«Non è stato saggio puntar tutto su un po’ di letteratura e rinunziare alla vita, che dopo tutto è l’unica cosa che abbiamo». Nel 1935, Eugenio Montale affida questo pensiero a una cartolina. Senatore a vita, Nobel per la letteratura e convinto antifascista, il poeta genovese figura tra i più importanti autori italiani del XX secolo. La sua è una poetica per sottrazione, emblema di una vita trascorsa in disparte, anche quando si trova sotto i riflettori della fama internazionale. Testimone defilato del proprio tempo, sulla carta lascia un pensiero lucido di disincanto, testamento di chi come lui ha vissuto un esilio volontario da quel “male di vivere” che per lui è una risacca interiore.

I primi anni

Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896. È l’ultimo di sei figli in una famiglia di commercianti: l’infanzia trascorre serena tra i carruggi in zona Principe, poco distante dalla stazione che ogni estate lo porta in riviera. La famiglia possiede una casa a Monterosso al Mare: il borgo delle Cinque terre è per lui un paesaggio dell’anima in cui colleziona ricordi e immagini vivide, da tradurre in versi. Nel 1915 ottiene il diploma di ragioniere, ma la sua vocazione è ben altra: con l’aiuto della sorella Marianna si avvicina al mondo letterario maturando una solida formazione da autodidatta. A ciò si aggiunge lo studio della musica, che Montale cerca d’infondere nei primi versi scritti prendendo spunto dai simbolisti francesi.

La spiaggia di Monterosso

La spiaggia di Monterosso

Foto: Davide Papalini, CC BY-SA 3.0, pubblico dominio

Il ragioniere poeta

Nel 1916 inizia a scrivere poesie: sono gli anni della Prima guerra mondiale, cui Montale partecipa come volontario. L’esperienza vissuta al fronte tuttavia non influenza particolarmente i suoi componimenti. A differenza di altri scrittori-soldato – tra cui Ungaretti – il giovane Montale mantiene sempre un certo distacco da ciò che lo circonda. Il suo interesse si ripiega sull’uomo del XX secolo, immerso in una profonda crisi esistenziale e alla continua ricerca di risposte, di senso. A lui si rivolge con la poesia Non chiederci la parola: scritta nel 1923, apre la raccolta Ossi di seppia, pubblicata due anni dopo. È un messaggio per l’uomo del suo tempo, cui la poesia non è più in grado di offrire pace di fronte ai drammi che caratterizzano l’epoca contemporanea.


Gli anni dell’esordio sono segnati dalla marcia su Roma di Mussolini. Durante il ventennio fascista, Montale osserva le vicende storiche e politiche del proprio tempo, in cui non esita a prendere una posizione netta. Nel 1925 firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce, scelta che gli costerà più volte il posto di lavoro. Nello stesso anno esce Ossi di seppia: fragile e leggera, la prima raccolta incanta per la capacità di ritrarre ciò che resta e resiste al tempo. «Il primo titolo che avevo proposto era “Rottami” – ricorda in seguito l’autore. – Ne furono stampate mille copie, dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo». È il primo passo verso la poetica delle piccole cose, che negli anni lo porterà a prendere le distanze dalle liriche altisonanti a favore di un linguaggio umile e concreto.

Resistenza defilata

Nel 1927 si trasferisce a Firenze, dove entra a fare parte di circoli culturali – come il caffè delle Giubbe rosse, dove conosce Carlo Emilio Gadda ed Elio Vittorini – e avvia la collaborazione con la rivista Solaria. Nella città di Dante incontra Drusilla Tanzi, la sua “Mosca”, che gli rimarrà accanto per ventitré anni. In quel periodo conosce anche Irma Brandeis, studiosa americana di origine ebraica; con il nome di “Clizia” sarà la musa ispiratrice delle cinquanta poesie raccolte nel volume Le occasioni (1939). L’idillio fiorentino dura poco: la promulgazione delle leggi razziali antiebraiche costringe Irma a fuggire in America. Montale non la rivedrà più: rimane a Firenze con Drusilla, consapevole che le maglie del regime si sarebbero strette ulteriormente. Nel 1938 rifiuta d'iscriversi al partito fascista e viene espulso dal gabinetto scientifico letterario “G.P. Vieusseux”, di cui era direttore.

Da sinistra a destra, Drusilla Tanzi, Eugenio Montale, Gerti Frankl

Da sinistra a destra, Drusilla Tanzi, Eugenio Montale, Gerti Frankl

Foto: Pubblico dominio

Il secondo conflitto mondiale lascia segni profondi nella vita e nell’animo dell’autore: le bombe distruggono la sua casa di Genova, gli orrori della guerra macchiano la speranza di cui si era sempre nutrita la sua poesia. Anche la politica si rivela una delusione: l’impegno nel Partito d’azione e al servizio del Comitato di liberazione nazionale dura poco. Le prospettive del dopoguerra sono deludenti, così come la possibilità di aderire ai movimenti ispirati a marxismo e socialismo, distanti dallo spirito borghese che ha sempre connotato lo scrittore genovese. Montale si trova così sospeso in un presente che non riconosce e di cui non si sente più parte.

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Parole semplici e affilate

Nel 1948 viene assunto al Corriere della sera e si trasferisce a Milano con Drusilla. Lì ha una breve relazione sentimentale con la poetessa Maria Luisa Spaziani, che per lui sarà “Volpe”, figura terrena e sensuale, protagonista di alcuni versi raccolti ne La bufera e altro (1956), libro che parla di guerra e bilanci esistenziali. Torna l’eco del “male di vivere” spesso incontrato: dalle guerre mondiali agli anni di piombo, Montale è spettatore e vittima di un secolo feroce e travolgente, ormai inafferrabile. La sofferenza è per lui un’eco disillusa, ma non priva di speranza: Clizia, Volpe, Mosca, le donne amate incarnano la luce che il poeta cerca in un presente ormai privo di senso. Sposerà Drusilla nel 1962, lei morirà un anno dopo: la sua assenza è per Montale «il vuoto ad ogni gradino».

La morte di Drusilla cambia l’impronta espressiva dell’autore, che prende le distanze dalle rime altisonanti dei “poeti laureati” a favore di un lessico familiare. Sceglie parole semplici, immagini realistiche, descritte da sentimenti e oggetti quotidiani. La natura e gli animali diventano simboli per accedere a significati astratti, quasi metafisici. È la sua personale resistenza allo «scialo di triti fatti» quotidiano, un «travaglio» che confina lo spirito come «una muraglia che in cima ha cocci aguzzi di bottiglia». Parole semplici e affilate, che s’infilano sotto pelle come le emozioni che il poeta affida al verso nudo, non imbellettato. È lo stile che più avanti caratterizza Satura, raccolta pubblicata nel 1971, quattro anni prima di ricevere il premio Nobel per la Letteratura.

Il Nobel e un dubbio

Nominato senatore a vita nel 1967 per meriti artistici e culturali, Montale è presto tra i possibili candidati al premio dell’Accademia di Stoccolma. Alle ore 13 del 23 ottobre 1975 il poeta riceve la telefonata dell’ambasciatore svedese. In quel momento si trova nel suo appartamento milanese, al terzo piano di via Bigli 15: oltre alla governante, con lui ci sono tre giornalisti. Attendevano la telefonata da almeno tre ore: la soffiata sull’assegnazione del Nobel era ormai quasi una certezza. Quando riattacca il ricevitore, Montale torna a sedersi e si accende una sigaretta: «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?».

Il Presidente della Repubblica Giovanni Leone con il senatore a vita Eugenio Montale (1972)

Il Presidente della Repubblica Giovanni Leone con il senatore a vita Eugenio Montale (1972)

Fonte: Archivio del Quirinale

Il 10 dicembre 1975 l’autore si reca a Stoccolma per ritirare il Nobel, a cinquant’anni esatti dalla pubblicazione del suo Ossi di seppia. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta – afferma prima di partire in un’intervista al Corriere. – Nei registri degli alberghi mi sono sempre qualificato come giornalista».

Eugenio Montale muore il 12 settembre 1981 a Milano, a un mese esatto dal suo ottantacinquesimo compleanno. Nel Diario del ’71 e del ’72 lasciava ai posteri una raccomandazione: «di fare un bel falò di tutto che riguardi la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti. Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere ed è già troppo vivere in percentuale. Vissi al cinque per cento, non aumentate la dose. Troppo spesso invece piove sul bagnato».

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