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 Uno dei live più famosi della storia: quello dei Pink Floyd a Pompei il 4 ottobre del 1971, possibile grazie all’intuizione visionaria del regista scozzese Adrian Maben. Ecco come nacque e si sviluppò l’idea di far suonare la band tra le rovine dell’antica città.

Pompei lascia un vago senso di inquietudine e meraviglia, ancora oggi. Divenuto uno spazio al di fuori del tempo, valicare i suoi cancelli vuol dire entrare in una dimensione differente dalla nostra. Ma perché il regista scozzese Adrian Maben sceglie proprio Pompei per il suo live? E perché i Pink Floyd? Prima di arrivare ai giorni di Ottobre del 1972, è interessante analizzare quello che è stato il quadro storico/artistico della riscoperta e della valorizzazione di Pompei e fare un passo indietro.

La conoscenza dell’antichità classica ebbe una svolta decisiva quando nel 1738, per mezzo delle indagini archeologiche, vennero localizzate le antiche rovine di Ercolano e Pompei sepolte dall’eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C. L’entusiasmo delle ricerche dei luoghi passati provocò nei vari regni d’Italia una ripresa e scoperta degli scavi: in modo particolare a Roma e nel sud d’Italia, dove la Magna Grecia ebbe un’importante sviluppo. L’interesse ritrovato verso il mondo antico diede inizio alle pubblicazioni di interi volumi illustrati che contenevano riproduzioni delle antichità greche e romane, come le Antichità di Ercolano Esposte di Tommaso Piroli pubblicato tra il 1757 e il 1792, o Le antichità Romane del 1756 di Giovanni Battista Piranesi. Lo sviluppo crescente mai prima così largamente diffuso per l’antico e per le pubblicazioni relative ad esso, influenzarono la nascita di un nuovo movimento artistico: il Neoclassicismo. Con lo sviluppo delle collezioni private e pubbliche al fine della loro stessa valorizzazione e del mercato dell’arte, il Neoclassicismo caratterizzò la seconda metà del Settecento e i primi vent’anni dell’Ottocento. Ebbe infatti uno stretto rapporto sia con l’affermata società dell’Illuminismo che con la cultura romantica. La poetica della nuova corrente portava con sé il sentimento romantico che smuoveva le emozioni dell’uomo di fronte alla nobile grandiosità dei monumenti greco-romani in rovina, in un’ atmosfera di malinconica tristezza che si respirava osservando le strutture monumentali classiche.

Francesco Piranesi, Veduta della Porta dell’antica Città di Pompei (1789; acquaforte, foglio 500 x 400 mm, lastra 420x300 mm; New Haven, Yale University Art Gallery, The Arthur Ross Collection)
Francesco Piranesi, Veduta della Porta dell’antica Città di Pompei (1789; acquaforte, foglio 500 x 400 mm, lastra 420x300 mm; New Haven, Yale University Art Gallery, The Arthur Ross Collection)

Adrian Maben, Live at Pompeii, 1972, Francia
Adrian Maben, Live at Pompeii, 1972, Francia

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

È lo stesso sentimento che Adrian Maben prova tra il 1970 e il 1971 camminando tra le vie di Pompei, avvolto da un silenzio che riesce a perforare i timpani. “È un po’ come sentire il silenzio del mondo”, per riprendere le parole di Magritte. Proveniente da studi di cinema fatti a Roma, Adrian Maben, nato nel 1942, entra in contatto da subito con il mondo di Fellini, con i grandi registi italiani della cultura degli anni Sessanta e soprattutto con la maestosità dei monumenti della città eterna. Un mondo che si porterà a Parigi qualche anno dopo e del quale deciderà di circondarsi. Ed è proprio in quei luoghi, lavorando a progetti sull’arte cinetica, che al regista viene l’idea di girare un film d’arte totalmente differente da tutto ciò che gli altri propongono.

Contemporaneamente alle ricerche di Maben e al suo percorso nel cinema, una band britannica già considerata di culto rincorre il successo musicale anche in Italia. Si fanno chiamare Pink Floyd, e a differenza dei Rolling Stones e delle altre band del periodo come i The Who, sono gli unici ad essere avvolti un’aura di mistero che li rende evanescenti. Nel 1970 vengono scelti da Michelangelo Antonioni, con il compito di sonorizzare il suo ultimo film: Zabriskie Point. Rimarrà memorabile la scena finale del film con il loro sonoro Come In Number 51, Your Time Is Up nel quale la fusione tra l’esplosione della villa e la melodia dei Pink Floyd generano una dinamica al di fuori dello spazio e del tempo. Tutto si muove e tutto rimane immobile in un momento che diventa astratto. Folgorato dai suoni metafisici e quasi alieni della band, Maben decide di girare un film d’arte in cui la loro musica crei un sottofondo perfetto alle immagini di De Chirico e quelle di Magritte (comprendendo anche lavori di artisti più contemporanei come Christo). L’idea non attrae il gruppo e la vera svolta arriva solo quando il regista scopre e visita le rovine di Pompei.

Nel silenzio che lo sovrasta, avvolto dal profumo degli aghi di pino del mediterraneo, dal suono delle cicale e al centro dell’anfiteatro illuminato dal sole, non ha più dubbi. Via De Chirico e via Magritte. Propone una seconda idea ai Pink Floyd: un live a Pompei, al centro dell’anfiteatro. Il gruppo accetta immediatamente, ma a due condizioni: la prima, nessun playback. Solo la loro voce in presa diretta. La seconda invece è la presenza di tutta la loro attrezzatura. Amplificatori e registratori dalla tecnologia piuttosto avanzata. Il regista accetta. Adrian Maben non può sbagliare un colpo e, prima del live, decide di entrare ancora più in contrasto con i live del momento.

Totalmente in contrapposizione al grande festival della musica di Woodstock, tenutosi a Bethel, nello stato di New York, dal 15 al 18 agosto del 1969, il live a Pompei è studiato per divenire il simbolo dell’anti-Woodstock. L’irrazionalità dell’anima contro la ragione e il silenzio sacrale. Silenzio dato dall’assenza di spettatori, così è stato deciso da Maben. Perché al live assistono solo gli spettri del passato. E attraverso la solitudine il regista decide che il suo film debba riflettere sensazioni di fascino, riverenza, paura, splendore. Si stacca perciò dal cliché del momento, al fine di creare qualcosa di nuovo. Differente nella dinamica del live, del luogo e soprattutto nello scopo artistico. Per i Pink Floyd e i loro suoni in grado di penetrare il tempo, rimane solo Pompei con la sua natura sublime e spettrale. Mettere in risalto la città distrutta dal Vesuvio è sicuramente un evento senza precedenti per una band. La loro musica sarebbe stata incorniciata dalle rovine e dall’atmosfera di dannazione che continua ad aleggiare sul luogo.

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

È il 4 ottobre del 1971. Dopo giorni di difficoltà, un cavo elettrico lungo centinaia di metri che porta finalmente la corrente ai costosi impianti di registrazione dei Pink Floyd, si snoda dal retro del santuario della città di Pompei. Procede lungo tutto il tratto che conduce dal centro abitato alle rovine romane, finendo il suo percorso nell’anfiteatro. Poi l’azione. Una carrellata in avanti verso l’anfiteatro e subito dopo l’inizio della musica in presa diretta mentre la troupe registra i quattro giovani e i loro strumenti: il live inizia con Echoes pt. 1, il capolavoro che non ha memoria. Le figure diventano sempre più distinte con l’avvicinarsi della camera, nonostante David Gilmour, Roger Waters, Richard Wright e Nick Mason siano facilmente riconoscibili.

Di grande importanza per il montaggio del film, sono le riprese in controluce dei ragazzi che si fanno largo in solitudine tra gli scavi Pompeiani e la Solfatara di Pozzuoli, un cratere vulcanico in attività nei Campi Flegrei. In stato quiescente da almeno duemila anni, mantiene tuttora un’attività di fumarole di anidride solforosa e getti di fango bollente. Il gruppo si immerge senza troppi problemi nei panorami sulfurei di un mondo differente. Un luogo di bolle di fango e rocce magmatiche, dove la terra vive, inspira ed espira veleno donando suggestioni da far pensare di trovarsi davanti le porte dell’Inferno dantesco.

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale
Jacques Boumendil, Pink Floyd: Live at Pompeii (1971), immagine digitale

Ad alternare le immagini dei ragazzi in cammino, vi sono le riprese ai volti di pietra silenti delle antiche sculture Pompeiane, che rimandano momenti di grande suggestione e fascino. Sono immagini fondamentali per la costruzione del film che verrà diviso in due parti: la prima metà che comprende Echoes pt.1, One of These Days e A Saucerful of Secrets, e il finale Echoes pt.2, viene registrata direttamente a Pompei. La seconda invece negli studi Europasonor di Parigi poco più tardi, tra il 13 e il 20 Dicembre del 1971. In quella settimana di riprese dal vivo, Pompei diventa la compagna silenziosa dei presenti, li immerge in un contesto di riflessione, mistero e la musica dei Pink Floyd viene elevata ad un piano superiore. Differente, Divino. Incomprensibile a tratti, essa non proviene dal piano terreno né dal mondo attuale.

Se da una parte Woodstock rappresenta la freschezza dei nuovi ideali di pensiero e d’espressione trascinati dall’onda della rivoluzione del ’68, Pompei rappresenta una storia cristallizzata oltre il tempo. Una riscoperta dell’antico rivestito di una religiosità accessibile solo alla band. Solo ai Pink Floyd è concesso avvicinarsi, comprenderla, sfiorarla; a loro Pompei regala i suoi echi, la sua memoria, ed essi restituiscono la sua energia al mondo: plasmata, più misteriosa, sempre più elevata attraverso un’unica esperienza irripetibile, senza precedenti. Un elogio a quella bellezza che solo gli occhi di Adrian Maben sono riusciti a catturare tra le striature rossastre del cielo al tramonto su Pompei.

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