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Quando Angelo Morbelli dipingeva l'abbandono e la disperazione degli anziani del Pio Albergo Trivulzio


 Angelo Morbelli (Alessandria, 1853 - Milano, 1919), uno dei grandi artisti del divisionismo, per circa trent'anni dipinse gli anziani del Pio Albergo Trivulzio di Milano, in dipinti intrisi di malinconia, per raccontare tutta la solitudine, la disperazione e l'abbandono della vecchiaia.

Quando s’ammira un quadro i cui protagonisti sono anziani segregati in un ospizio, quello che si contempla non è “un aspetto per così dire normale della nostra cultura”, scriveva qualche anno fa lo storico dell’arte Michael F. Zimmermann parlando dei dipinti che Angelo Morbelli aveva ambientato al Pio Albergo Trivulzio di Milano, l’istituto che, dal 1766, anno in cui fu fondato per volere del principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio, aveva continuato ad accogliere i poveri della città, soprattutto vecchi e malati. Nel momento in cui ci si trova costretti a misurarsi con un povero interno abitato da anziani soli, mesti, chini e abbandonati, si diventa oggetto d’un confronto “che non rientra nella normalità di vita”, un confronto che ci obbliga a prender contezza d’una dimensione lontana dal nostro vissuto quotidiano, specie se questo è confortevole. E, di conseguenza, a prender posizione (una posizione, beninteso, “vissuta all’interno della società”), o quanto meno a ridefinire il proprio modo di vedere le cose. I quadri di Morbelli, in altri termini, muovono da due punti di vista: “quello dei personaggi rappresentati e quello di chi guarda”, e la prospettiva di chi guarda non è solo quella dell’autore, ma è quella della società intera. Non è dunque il pittore a condizionare l’osservatore: è la società stessa che lo spinge a fornire un’interpretazione dell’opera. Secondo Zimmermann, “non è Morbelli ad inquadrare il ‘vero’ sociale, ma è lo spettatore che non può rimanere indifferente a quello che il pittore gli mostra”.

Lo studioso riteneva che Pellizza da Volpedo e Morbelli fossero i più grandi nell’affrontare la realtà in questo modo, ovvero raccontandola attraverso quadri capaci di sfidare la società. Ed è quanto Morbelli ha cercato di fare a più riprese coi dipinti del Pio Albergo Trivulzio, luogo che l’artista d’origini piemontesi frequentò per tutta la carriera. Vi si era recato per la prima volta nel 1883, a trent’anni d’età, e il contrasto non poteva esser più stridente: lui giovane, vitale, mosso dal desiderio di documentare la vita nel ricovero, che cominciò a studiare per mezzo di disegni e di fotografie, molte delle quali ancora si serbano, pur se colpite dalle ingiurie del tempo. Dall’altra parte, gli ospiti del Pio Albergo Trivulzio, vecchi allontanati dalla società perché non ritenuti più utili, lavoratori che s’erano messi al servizio della nascente società industriale e che diventano emarginati nel momento in cui nessuno ha più bisogno di loro, anziani senza mezzi di sostentamento economico condannati a trascorrere gli ultimi scorci delle loro esistenze assieme a tanti altri derelitti come loro, in enormi ambienti promiscui, lontani da qualsiasi affetto. Primi rifiuti d’un mondo che cominciava a diventare frenetico, a sradicare abitudini secolari d’una società fino ad allora in gran parte contadina, a travolgere chiunque non avesse le forze per stare al passo. S’intitola Giorni... ultimi! il dipinto che inaugura questa poetica dell’abbandono, della desolazione, della sofferenza: un’opera giovanile, che precede la svolta divisionista di Morbelli. Un’opera di successo, esposta a Brera, capace d’aggiudicarsi il prestigioso Premio Fumagalli e un nugolo di critiche benevole. Un’opera di “cronaca impietosa”, come ha ben scritto Giovanna Ginex, nome tra i più autorevoli della critica morbelliana.

Il pennello di Morbelli cattura un brano di quotidianità nel grande salone del Pio Albergo Trivulzio, all’epoca ancora ospitato nel palazzo del principe, in Contrada della Signora: pochi anni più tardi, nel 1910, la sede sarebbe stata spostata nell’attuale edificio sulla via per Baggio. Gli anziani ospiti siedono sulle lunghe panche del grande ambiente dedicato alle piccole attività quotidiane, e la luce radente fa risaltare i loro volti spenti e malinconici: alcuni leggono, altri hanno lo sguardo perso, altri ancora si reggono la testa e pensano, c’è chi tenta di scrivere, chi dorme, chi si guarda attorno spaesato. Fortunato Bellonzi suggeriva di cogliere la tensione di questa scena osservando alcuni specifici dettagli: l’ordinamento delle panche e delle pareti, la lampada appesa al soffitto che diventa anch’essa personaggio, il tubo che taglia in obliquo la parete di fondo, il personaggio che per cercare un po’ di calore appoggia le mani all’enorme stufa. Dettagli che contribuiscono a rivelare l’attitudine di Morbelli: quella dell’artista che indaga la realtà più per sottolineare la condizione umana di chi la patisce, che per denunciare un problema concreto.

Angelo Morbelli, Giorni… ultimi (1882-1883; olio su tela, 98 x 157,5 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)
Angelo Morbelli, Giorni… ultimi! (1882-1883; olio su tela, 98 x 157,5 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)

E il Pio Albergo Trivulzio era all’epoca luogo tutt’altro che ospitale: gl’inconvenienti erano molti e urgenti, e rendevano vieppiù grama l’esistenza dei poveri vecchi obbligati a spender qui i loro ultimi anni. Incombeva, intanto, il problema del sovraffollamento, che del resto emerge anche a margine di Giorni... ultimi!. La promiscuità era un altro dilemma, dacché molti anziani erano costretti, per assenza di spazî adeguati, a condividere gli stessi ambienti e a dormire in vaste camerate: la strada più rapida per agevolare il diffondersi delle malattie (e sarà opportuno ricordare che, data anche la conformazione dei locali, gli operatori del ricovero non erano in grado di dividere i sani dai malati). Sono però temi che non emergono a tutta prima: al centro dei dipinti di Morbelli è semmai la “marginalità intesa come angosciosa esclusione dalla vita attiva, come mancanza di reali motivazioni a sopravvivere, come disancoramento dagli affetti familiari” (così Luciano Caramel): i patimenti di questi anziani sono interiori ancor prima che fisici, ed è per tal ragione che è impossibile trovare in Morbelli la malattia nella sua più palmare evidenza tangibile, fatta di segni che infieriscono sul corpo (al contrario di quanto accadeva, per esempio, in Daumier, pioniere della pittura di denuncia sociale ottocentesca, dove non sono rare le figure di anziani piegati dallo scorrere degli anni o dalle sferzate della miseria). All’opposto, i vecchi di Morbelli appaiono sempre in uno stato di buona salute, quanto meno apparente. Forse perché radice di tutto è l’abbandono. Forse perché a lasciare le ferite più profonde non è il morbo, ma la consapevolezza d’esser stati messi da parte, scartati, traditi, dimenticati. Forse perché tutti i problemi che storicamente hanno afflitto e che oggi continuano ad affliggere gli anziani nei ricoveri sono problemi di umanità, prima ancora che problemi d’ordine medico o sanitario. Forse, ciò che fa davvero più male è spegnersi lentamente nell’oblio. I vecchi del Pio Albergo Trivulzio dunque altro non sono che involucri rimasti vuoti, sospesi in un’attesa amara, penosa e indefinita.

Sta qui quella “sconcertante mestizia” di cui parlava Corrado Maltese quando si riferiva ai dipinti di Morbelli, colmi d’interni “con vecchini e vecchine sfiorati dagli ultimi raggi del tramonto”. Maltese aveva in mente alcuni tra i più evocativi lavori eseguiti nell’ospizio milanese: ad esempio, il Giorno di festa al luogo Pio Trivulzio del 1892, oggi al Musée d’Orsay di Parigi (l’opera ebbe in Francia un gran successo: fu mostrata nel 1900 all’Esposizione Universale di Parigi assieme al Viatico del 1884, lavoro raffigurante un funereo addio a un ospite del Trivulzio venuto a mancare, e in quell’occasione venne premiata con una medaglia d’oro e acquistata dallo Stato francese), o il più tardo Un Natale al Pio Albergo Trivulzio, del 1909, attualmente alla GAM di Torino. Il tema del giorno di festa nell’ospizio, evenienza che acuisce il drammatico senso di solitudine che opprime l’esistenza dei vecchietti abbandonati nei ricoveri, non era nuovo alla pittura europea: Ginex enumera precedenti come il Natale al Chelsea Hospital di Hubert von Herkomer, del 1878, o Noël à l’hospice di Léon Frédéric, opera del 1884, che probabilmente Morbelli conosceva e dai quali partì per i suoi dipinti che narrano il giorno di Natale negli stanzoni del Pio Albergo Trivulzio. I raggi di sole che filtrano dalle finestre disegnano grandi quadri di luce sulle pareti e sui banchi, e altro non fanno che ribadire l’isolamento esistenziale obbligato dei vecchi, sottolineando la vastità dello spazio vuoto: i pochi ospiti sono lì soli, distanziati non solo fisicamente ma anche nell’animo, sono immobili, si lasciano andare. Da notare come torni, ossessivamente, il tema dell’anziano che s’appoggia con ambedue le mani alla stufa: quasi che l’unico calore che questi poveri esseri umani possano ancora provare sia quello d’un apparecchio termico.

Non abbiamo piena cognizione delle reali intenzioni di Angelo Morbelli, ma è certo che una lettura dei dipinti del Pio Albergo Trivulzio fondata su questo angosciante senso di disperazione fosse emersa già al tempo: in un commento pubblicato sul numero natalizio del 1904 de L’illustrazione popolare, un giornale per famiglie edito in Milano dai fratelli Treves, si poteva leggere che “non sono certo lieti, i poveri vecchi che il pittore Angelo Morbelli vide in quell’asilo della vecchiaia povera, ch’è il Luogo Pio Trivulzio a Milano. Sono vecchi che hanno perduti tutt’i loro cari; e sono rimasti soli nell’Ospizio; gli altri coetanei sono stati invitati in casa di qualche parente superstite, di qualche amico... uno di essi s’abbranca alla stufa, come all’ultima cosa vitale che gli resta; gli altri stanno pensosi, curvi sulle panche deserte, al pallido raggio del sole invernale, che penetra nella vasta sala melanconica”. Toni ancor più elegiaci assumeranno altri dipinti più tardi, quale Inverno al Pio Albergo Trivulzio, eseguito nel 1911 e che riprende, con uno scorcio dal taglio fotografico declinato in una forma però più intima rispetto a tante sperimentate prima, un interno della nuova sede in via Baggina, quella in cui il Trivulzio è ancor oggi ospitato: qui, alcune anziane sono chine sotto una finestra da cui filtra una luce tenue che neppure riesce a illuminarle: solo una di loro è rischiarata, e volge lo sguardo al di fuori. Ma sono tutte lì, in un unico ambiente, a trascorrere un giorno desolato e uguale a tutti gli altri: ne risulta come un clima di sospensione, una mesta e ineluttabile attesa della fine.

Angelo Morbelli, Giorno di festa al luogo Pio Trivulzio (Un Natale al Pio Albergo Trivulzio) (1892; olio su tela, 78 x 122 cm; Parigi, Musée d'Orsay)
Angelo Morbelli, Giorno di festa al luogo Pio Trivulzio (Un Natale al Pio Albergo Trivulzio) (1892; olio su tela, 78 x 122 cm; Parigi, Musée d’Orsay)


Angelo Morbelli, Un Natale! Al Pio Albergo Trivulzio (1909; olio su tela, 99 x 173,5 cm; Torino, GAM - Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea)
Angelo Morbelli, Un Natale! Al Pio Albergo Trivulzio (1909; olio su tela, 99 x 173,5 cm; Torino, GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea)


Angelo Morbelli, Il Viatico (1884; olio su tela, 112 x 200 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Angelo Morbelli, Il Viatico (1884; olio su tela, 112 x 200 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Angelo Morbelli, Inverno al Pio Albergo Trivulzio (1911; olio su tela, 72 x 148 cm; Milano, Galleria d'Arte Moderna)
Angelo Morbelli, Inverno al Pio Albergo Trivulzio (1911; olio su tela, 72 x 148 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)

L’interesse per i temi legati alle giornate passate nel Pio Albergo Trivulzio trovò poi una sorta d’organica sistemazione in un ciclo di sei dipinti che Morbelli eseguì nel 1903 e presentò nello stesso anno alla quinta Biennale di Venezia, nella Sala Lombarda, uno dei tanti ambienti dedicati alle mostre regionali. Le regole dell’esposizione prevedevano che ogni artista potesse portare in laguna soltanto due dipinti al massimo, ma Morbelli s’era premunito per tempo, scrivendo nel dicembre del 1902 al segretario generale della Biennale, Antonio Fradeletto, per chiedere una deroga, dacché sua volontà era quella d’esporre a Venezia sei o otto dipinti. La richiesta fu accolta, e Morbelli poté così presentare alla Biennale il Poema della vecchiaia, la serie di sei dipinti realizzati al Trivulzio e aventi per oggetto il tema della senilità esaminato secondo le sue accezioni più strazianti: solitudine, noia, nostalgia, tristezza, abbandono, morte. Il ciclo era stato esposto nella sua interezza esclusivamente in quell’occasione: è stato riunito solo nel 2018, per una mostra alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia, che dopo ben centoquindici anni ha potuto mostrare di nuovo al pubblico le sei tele del Poema della vecchiaia di nuovo radunate assieme.

“C’è ancora molto da raccogliere in fatto di sentimento e pittoresco”: così Morbelli scriveva, il 26 febbraio del 1901, all’amico Pellizza da Volpedo, palesando in tal modo, per i dipinti del ricovero milanese, una compartecipazione che, come s’è visto, era dettata più da motivi umani che da ragioni politiche. Volendo cominciare la lettura secondo l’ordine in cui i quadri erano stati esposti alla Biennale del 1903, il primo è Sedia vuota, che introduce il tema della morte: con un taglio prospettico leggermente decentrato (così da dare l’impressione d’una ripresa cinematografica in movimento, con la macchina da presa che si sposta da un capo all’altro della camera), Morbelli entra nella dimensione quotidiana d’uno sparuto gruppo di vecchiette che, rassegnate, meditano sulla perdita di una loro compagna di sventura, simbolicamente rappresentata dalla sedia lasciata vuota, inquietante allegoria della morte che aleggia sui ricoveri per gli anziani (nella prima stesura del dipinto, peraltro, Morbelli aveva inserito anche un ombrello per viatico, che decise poi d’eliminare per non presentare agli occhi del riguardante un riferimento funebre troppo esplicito). Mi ricordo quand’ero fanciulla è invece ambientato nel refettorio della sezione femminile del Pio Albergo Trivulzio: qui, le anziane consumano il loro parco pranzo (un po’ di pane, un po’ di vino) assorte nei loro pensieri, senza comunicare tra loro. Il titolo del quadro, com’era uso tipico di Morbelli, ne esplicita il senso: le signore hanno quell’aria assente perché, lontane dagli affetti, sconsolate per un finale che evidentemente immaginavano diverso, costrette in un ambiente anonimo assieme a tante altre infelici sconosciute, altro non possono fare che vivere nel ricordo. E le flebili impronte del passato, come sa chi ha avuto la fortuna di condividere una parte della propria esistenza con un anziano giunto alle fasi finali della sua vita, rivestono per loro un’importanza estrema, dacché è il ricordo una delle poche certezze in grado d’allietarle. Vecchie calzette è anch’esso una riflessione sulla morte: rintracciato di recente in Uruguay, era il quadro che mancava per ricomporre il ciclo di nuovo esposto a Venezia. Anche I due inverni riprende il tema delle vecchine alla finestra, con un filo di tristezza dovuto alla consapevolezza che le protagonista stanno vivendo gli ultimi tempi della loro esistenza: il primo inverno è quello che sta fuori dalla finestra e lascia entrare una luce diafana, il secondo è invece quello vissuto dalle protagoniste. La solitudine torna ne Il Natale dei rimasti, che riprende il tema già sperimentato nel 1892 con un grande salone vuoto, abitato solo da cinque figure che non interagiscono tra loro, ma s’abbandonano ai loro tragici pensieri (“nel giorno della festa”, ha scritto Giovanna Ginex, “il salone è quasi deserto, svelando la drammatica solitudine di chi non ha una famiglia che possa accoglierlo, neppure per Natale”). L’ultimo quadro, Siesta invernale, è una ripresa di Sedia vuota con cambio d’angolazione e punto di vista rialzato.

Il Poema della vecchiaia raccolse ottimi consensi. Sul Corriere della Sera ne scrisse anche Ada Negri (“l’abbandono e la miseria senile sono resi con sintesi ammirevole e definitiva”), e ne rimase soddisfatta anche una giovane Margherita Sarfatti, affascinata dal modo in cui il pittore alessandrino aveva affrontato un dramma sociale ponendo l’accento sui suoi aspetti esistenziali. Tutti ammirarono il modo in cui Morbelli aveva definito, con intima delicatezza e lirica raffinatezza, l’infelicità della vecchiaia trascorsa in un ospizio. “Povertà e solitudine”, ha scritto la storica dell’arte Elena Pontiggia, “si mescolavano, nelle opere di Morbelli, con una continua meditatio mortis, mentre la denuncia sociale si venava di una sottile amarezza, nella consapevolezza che nessun progresso, nessuna rivoluzione avrebbe mai potuto cancellare l’epilogo ineluttabile della vicenda umana”. Come detto, Morbelli sarebbe tornato a più riprese sugli argomenti del Poema della vecchiaia, ma c’è un dipinto che forse, più di altri, potrebbe esser ritenuto una sorta d’epilogo conclusivo della serie: è Sogno e realtà, noto anche come Trittico della vita, opera del 1905 che, non scevra di pulsioni simboliste, si distingue per il suo carattere meditativo e intriso di dolce e misteriosa nostalgia. Il trittico si presenta con due figure, una coppia di poveri anziani, sui lati: sono seduti in un interno, rischiarati solo da bagliori che sottolineano i loro volti colti in controluce. Entrambi si sono addormentati, mentre attendevano alle loro piccole attività quotidiane: un lavoro di maglia per lei, la lettura per lui. La signora s’è assopita coi gomitoli e i ferretti ancora sul grembiule, mentre il compagno ha riposto il libro, a denotare che il sonno era premeditato. Al centro, un emozionante notturno, l’elemento che rende quest’opera una delle più commoventi della pittura italiana tra Otto e Novecento: su di un terrazzo chiuso da una balaustra liberty, due giovani s’abbracciano e si lasciano trasportare dal loro tenero sentimento mentre guardano le stelle, con lei che s’abbandona sognante sulla spalla di lui. È la più evidente evocazione del ricordo che rende più sopportabile la vecchiaia: i due anziani rammentano quell’età felice che non potrà tornare, cercando di distogliere i pensieri dalle amarezze che il futuro riserverà, e dai dispiaceri d’un presente che li condanna a vivere di memorie per rendere meno sgradevoli le sofferenze del quotidiano.

Le sei tele del Poema della Vecchiaia in mostra a Venezia (Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro) nel 2018. Ph. Credit Finestre sull'Arte
Le sei tele del Poema della Vecchiaia in mostra a Venezia (Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro) nel 2018. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Le sei tele del Poema della Vecchiaia in mostra a Venezia (Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro) nel 2018. Ph. Credit Finestre sull'Arte
Le sei tele del Poema della Vecchiaia in mostra a Venezia (Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro) nel 2018. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Angelo Morbelli, Sedia vuota (1903; olio su tela, 60 x 85 cm; Collezione privata)
Angelo Morbelli, Sedia vuota (1903; olio su tela, 60 x 85 cm; Collezione privata)


Angelo Morbelli, Mi ricordo quand’ero fanciulla (Entremets) (1903; olio su tela, 71 x 112 cm; Tortona, “Il Divisionismo” Pinacoteca Fondazione C. R. Tortona)
Angelo Morbelli, Mi ricordo quand’ero fanciulla (Entremets) (1903; olio su tela, 71 x 112 cm; Tortona, “Il Divisionismo” Pinacoteca Fondazione C. R. Tortona)


Angelo Morbelli, Vecchie calzette (1903; olio su tela, 61,6 x 99,7 cm; Lugano, Collezione Cornèr Banca)
Angelo Morbelli, Vecchie calzette (1903; olio su tela, 61,6 x 99,7 cm; Lugano, Collezione Cornèr Banca)


Angelo Morbelli, I due inverni (1903; olio su tela, 47 x 71 cm; Milano, Collezione privata)
Angelo Morbelli, I due inverni (1903; olio su tela, 47 x 71 cm; Milano, Collezione privata)


Angelo Morbelli, Il Natale dei rimasti (1903; olio su tela, 61 x 110 cm; Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro)
Angelo Morbelli, Il Natale dei rimasti (1903; olio su tela, 61 x 110 cm; Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro)


Angelo Morbelli, Siesta invernale (1903; olio su tela, 49 x 74 cm; Alessandria, Museo Civico e Pinacoteca)
Angelo Morbelli, Siesta invernale (1903; olio su tela, 49 x 74 cm; Alessandria, Museo Civico e Pinacoteca)


Angelo Morbelli, Sogno e realtà (Trittico della vita) (1905; olio su tela, tre pannelli, 112 x 80 cm, 112 x 79 cm, 112 x 80 cm; Milano, collezione Fondazione Cariplo)
Angelo Morbelli, Sogno e realtà (Trittico della vita) (1905; olio su tela, tre pannelli, 112 x 80 cm, 112 x 79 cm, 112 x 80 cm; Milano, collezione Fondazione Cariplo)

Si può concludere con un’ipotesi avanzata da Zimmermann, secondo la quale i quadri della vecchiaia di Morbelli, pur concentrandosi sugli aspetti umani dell’esistenza nel Pio Albergo Trivulzio (se ne può ricavare, per converso, anche un’idea di quanto sia preziosa la vita degli anziani e di quanto sia turpe una società che li abbandona), non sono esenti da significative implicazioni politiche. Il punto di partenza è l’idea dell’individuo escluso dalla comunità che Giorgio Agamben formula nel suo Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita: “colui che è stato messo al bando”, scrive Agamben, “non è [...] semplicemente posto al di fuori della legge e indifferente a questa, ma è abbandonato da essa cioè esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono”. La grave povertà in cui versano ampie fasce della popolazione (che, al tempo di Morbelli, dobbiamo supporre molto più larghe di quanto non lo siano oggi) determina una situazione nella quale le istituzioni dispongono in maniera pressoché totale della vita delle persone che si trovano in condizioni disagiate, e dal momento che “i sistemi degli ospizi erano anche destinati a incarcerare in qualche modo la povertà e l’analfabetismo”, scrive Zimmermann, “è certamente lecito inquadrarli anche in questa prospettiva: le vecchie ed i vecchi erano mantenuti vivi togliendo loro sistematicamente quasi tutte le libertà”. È, in sostanza, una forma d’assistenza che garantisce la vita nella sua accezione puramente biologica, ma che esclude, con l’aggravante d’uscire dalla discussione nello spazio pubblico. “I quadri di Morbelli”, conclude Zimmermann, “erano dei passi importanti per fare entrare questi fenomeni di politica fatta sul corpo delle persone in un ambito di discussione pubblica”.

A quanto ci è dato sapere, Morbelli non fu animato dall’ardimentosa coscienza politica che muoveva l’amico Pellizza. È però lecito immaginare, date le sue frequentazioni, dato il suo interesse per la pittura di denuncia sociale anche più esplicita, e data anche la quantità di dipinti dedicati al tema della vecchiaia (gli studî più recenti ne contano una trentina), che un qualche barlume più marcatamente politico abbia irradiato, in certa misura, l’azione di questo grande pittore. Il tragico destino degli anziani del Pio Albergo Trivulzio, cancellati dalla società e costretti ad attendere la fine in un ricovero, è in Morbelli il sintomo più evidente delle aberrazioni delle società fondate su sistemi economici di tipo capitalista che, non potendo del tutto abbandonare gl’individui che le compongono, si limitano a escluderli nel momento in cui non sono più d’utilità. E forse già allora, più di cent’anni fa, un pittore, col solo strumento della sua arte, aveva cercato di metterci in guardia.

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