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Pietro Cavallini: grande Pittore tra Duecento e Trecento

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Di Pietro Perrino

Giorgio Vasari, nelle sue Vite definisce così Pietro Cavallini:

«[…] perfettissimo maestro di musaico, la quale arte insieme con la pittura apprese da Giotto nel lavorare che aveva fatto con esso lui nella nave del musaico di San Pietro, che dopo lui illuminasse questa arte […]».

Da Giorgio Vasari in poi, l’arte italiana del Duecento e Trecento sarà per molto tempo considerata e studiata attraverso il filtro di una visione toscanocentrica che vede in Giotto il massimo artista che innova la pittura italiana. Tuttavia, tale visione va superata, innanzitutto in seguito alle importanti scoperte degli affreschi del Sancta Sanctorum e dell’Aula Gotica a Roma che hanno gettato nuova luce sulla pittura romana del Duecento che quindi non va interpretata come una stanca riproposizione di modelli bizantini  e neanche influenzata da artisti toscani come Giunta Pisano e Cimabue.

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E’ in questo contesto che va inserita la figura di Pietro Cavallini (o anche Pietro de’ Cerroni), pittore romano che lavorerà a Roma e a Napoli tra l’ultimo quarto del XIII secolo e il primo decennio del XIV. E sul discorso Giotto-Cavallini va premesso che sono proprio i documenti ad attestare che il pittore romano fosse più anziano di Giotto di almeno una generazione: ai tempi di Giotto quindi, Cavallini era un’artista già formato e pare quindi improbabile che questi potesse essere allievo del grande artista toscano.

Le due imprese monumentali più importanti del pittore romano sono il ciclo musivo in Santa Maria in Trastevere e gli affreschi in Santa Cecilia in Trastevere. Per quanto riguarda i mosaici di Santa Maria in Trastevere, essi vanno collocati negli ultimissimi anni del Duecento (sebbene ci siano studiosi che hanno spostato la cronologia più avanti nonostante l’assenza di documenti che lo attestino).

Nella chiesa di Santa Maria in Trastevere Cavallini realizza un ciclo con le storie della Vergine utilizzando il mosaico con il fondo oro per ricollegarsi alla più antica decorazione musiva dell’abside dove al centro ci sono Cristo e la Madonna – vestita come una basilissa – in trono. Oltre alle scene della Vergine Cavallini realizza un riquadro dove possiamo ‘conoscere’ il committente della decorazione: si tratta di Bertoldo Stefaneschi raffigurato in ginocchio con la tipica cuffia (copricapo in voga all’epoca) mentre viene presentato alla Vergine dai due corifei Pietro e Paolo. Quest’ultima – che indossa ilmaphorion, il manto blu con le frange dorate – si trova all’interno di un clipeo e tiene in braccio il Bambino.

Nelle scene della Vita della Vergine si nota la grande abilità di Cavallini nel realizzare un impianto strutturale tridimensionale entro cui inserisce le salde figure.

Interessante è la Nascita di Maria dove dietro le figure l’artista ha ‘costruito’ una struttura con delle tende riccamente decorate per dare l’idea di una scena che si svolge in una stanza. Quella della lavanda del bambino è un’iconografia che affonda le radici nell’antichità: nei mosaici presenti in Libano del IV secolo d.C. dedicati alla vita di Alessandro Magno è presente la medesima scena.

 

La profondità spaziale la possiamo poi notare nella scena dell’Annunciazione dove la Madonna è inserita all’interno di una struttura sapientemente inserita nello spazio – anticipando i coretti padovani di Giotto –  e che presenta interessanti riferimenti decorativi che si ispirano all’Antico..

L’ultimo episodio, la Dormizione della Vergine è un riferimento ai Vangeli Apocrifi. San Giovanni Evangelista è un uomo in età avanzata e il suo viso si trova vicino a quello della Vergine stesa su un letto riccamente decorato, circondata dalle figure degli Apostoli e dai vescovi Timoteo di Efeso e Dionigi l’Areopagita. Al centro è il Cristo in mandorla con in braccio la Vergine Bambina.

 

Fu Federico Hermanin a scoprire e studiare gli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere che successivi studi hanno datato nei primi anni Novanta del XIII secolo: elemento importante è il ciborio realizzato nella chiesa da Arnolfo di Cambio che dovrebbe costituire la fine dei lavori di rinnovamento all’interno della basilica. In controfacciata si svolge il monumentale Giudizio Universale realizzato dal pittore umano. Al centro, l’imponente Cristo in trono in una mandorla rossa mentre ai due lati si dispongono rispettivamente gli angeli con il cromatismo delle loro ali dalle graduali sfumature di giallo, rosso e blu; la Vergine e il Battista e infine, su degli scranni – abilmente scorciati – siedono austeri gli apostoli dai volti tondeggianti, anch’essi delle figure possenti avvolte da turgide vesti che sembrano delle sculture antiche.

 

Infine, è doveroso fare un cenno al soggiorno napoletano di Cavallini che i documenti angioini attestano a partire dal 1308. Lo studioso Ferdinando Bologna nel 1969 ha riconosciuto la mano del pittore romano negli affreschi della cappella Brancaccio nella chiesa di San Domenico dove in effetti si può notare come la disposizione spaziale degli edifici con l’uso sapiente delle ombre siano gli stessi usati nei mosaici di Santa Maria in Trastevere a Roma.

Pietro Cavallini dunque, va considerato nella sua grandezza di importante figura del panorama artistico di fine Duecento inizio Trecento non solo  romano ma italiano, anticipando e preannunciando le scoperte che Giotto svilupperà ulteriormente in particolar modo ad Assisi e a Padova. Dopo la morte del pittore romano (avvenuta secondo Vasari a causa di «mal di fianco, preso nel lavoro in muro, per la umidità di quello e per lo star continuo a tale esercizio»), la sua lezione verrà assorbita da una serie di artisti che lavoreranno soprattutto nei territori del Lazio meridionale.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, A cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi Torino 1986 e 1991, vol. primo, pp. 151-153.

Alessandro Tomei, ad vocem Pietro Cavallini in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1993, pp. 586-593, con bibliografia.

 

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