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cultură şi spiritualitate

Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)

«Capigliatura femminile, Riga in mezzo n.1» (1965) di Domenico Gnoli (particolare), Collezione Prada, Milano © Domenico Gnoli

STEFANO CAUSA, ARABELLA CIFANI | 14 dicembre 2022

Scolpisci i tuoi capelli!
Fin dal principio di questo miniviaggio sul corpo il patto con Arabella era stato di spingere solo sulle opere che affiorassero subito alla memoria, come lo scatto di una pila, senza intestardirci in ricerche ulteriori. Spegniamo il pc, decarburiamo i motori di ricerca. Le prime scelte sarebbero state le ultime. E questo oltre che divertire (forse) chi legge ci avrebbe detto qualcosa di noi e di ciò che resta, appunto, allorché il lavoro di una vita si sia dimenticato o sedimentato.

Accortici che il gioco del corpo era acefalo e che mancavano all’appello capelli veri o parrucche, a me è venuto in mente il ritratto cosiddetto di Lucrezia Borgia di Francoforte, dove, intorno al 1520, i capelli si prendono tutta la scena e fanno già sentire dietro la porta i dreadlocks o le mise rasta, che negli anni ’70 del ’900 cominciavano a circolare da noi con gli apostoli del reggae giamaicano. Nel mostrarci solo un seno, da accomodare nel palmo della mano, la modella di Bartolomeo Veneto ingaggia un dialogo privatissimo da cui siamo esclusi. Un indovinello figurato come nei ritratti della scuola di Fontainebleau, che d’altronde anche a questo capolavoro si sono ispirati.
«Ritratto di Lucrezia Borgia di Francoforte» (1520 ca) di Bartolomeo Veneto
Quanto ai capelli, per ritrovarli scrutati ad uno ad uno, come feroci gioiellerie sotto i riverberi alla luce (uno shanghai per professionisti), bisognerà attendere i dettagli ravvicinatissimi delle ciocche fatti da un maestro come Domenico Gnoli, romano morto a New York nel 1970, a trentasei anni. Uno che ha detto: «Non ho potuto dimenticare il sapore e la pratica del Rinascimento».

Arabella avrà forse pensato allo stesso quadro, chissà. Ma per parlare dei capelli nell’arte (difficile immaginare titolo più scemo) un avvio sanamente irrispettoso potrebbe essere dedicare la visita alla sala, recentemente riallestita (2018) del «Tondo Doni» agli Uffizi, «situandoci dal punto di vista tricologico». Come dire, la staffetta Gusto Antico, Michelangelo e Raffaello riagguantata per i capelli. Tondo al centro con cornice magnifica e non sempre riprodotta; i ritratti di Raffaello e, a saldo di questo poker fiorentino, la «Madonna del Cardellino». Ultima ma non per ultima la testa ellenistica: non fosse perché ripartiranno tutti da quei ricci di Alessandro morente che antivedono i serpenti caravaggeschi (e rubensiani) della Medusa.
«Tondo Doni» (1505-1506 o 1507) di Michelangelo, Firenze, Gallerie degli Uffizi
Ormai mentalmente avviato alla volta della Sistina, Michelangelo sembra applicarli all’eroico bambin Gesù. Di seguito sfilano la treccia raccolta in capo della Madonna, il san Giuseppe stempiato (stentoreo come uno del gruppo TNT di Max Bunker), il Battista giovinetto e riccioluto; e finalmente, sullo sfondo, sei nudi di giovani palestrati e capelluti come nazareni. Quanto a Raffaello invece, con pennelli super finissimi, rintraccia (ed è uno dei privilegi di vedere Agnolo e Maddalena Doni in altissima definizione digitale) ogni singolo filamento dei capelli contro il cielo.

Attenzione: approdati ai capelli dopo molte puntate susseguitesi, un poco casualmente, tra capo e piedi, tra cielo e terra, e provando a inseguire un problema di stile; ecco che il discorso si fa paurosamente centrifugo. Ragionare sui capelli nell’arte è, innanzitutto, ripercorrere la vicenda delle loro acconciature. Equivale a salvare un codice di storia del costume. Come li portavano le antiche romane, le donne di Palmira o, nel primo Cinquecento, quelle del Lotto? E poi, quando i dettami del gusto imporranno di portarli posticci, cosa dire di Francesco I duca d’Este o di Luigi XIV stesso che, sotto i colpi di Bernini, si ritrasformano in altrettanti ritratti di parrucche con viso a corredo?

Nella Certosa di Parma il conte Mosca, che non ha cinquant’anni e però si sente vecchio e inadeguato, si vergogna di dover indossare la parrucca come un cascame di antico regime; specie perché la duchessa Sanseverina non ha occhi che per un giovane dai bei capelli e presumibilmente svelto di lombi. «Molto pelo, molta musica!»: diceva Carlo Emilio Gadda a proposito di Foscolo.
 «Nascita di Venere» (1863) di Alexandre Cabanel, Parigi, Musée d’Orsay
Da Stendhal in poi i capelli torneranno a fare il loro mestiere di ornare e incorniciare. Inevitabili e realistici come quando, nella scultura della «Ballerina» di Degas, oggi a Washington, anno 1881, mortuaria come tutte le cere, i capelli diventano la sola cosa vera. A riprova che, come sapevano gli scrittori di fine secolo inclini ad andare controcorrente, il massimo della finzione si ottiene con il massimo della naturalezza. Capelli veri su un corpo finto dopo che, per tre secoli, si erano accomodati capelli finti su di un corpo vero.

Ora se i capelli della «Nascita di Venere» (1863) di Cabanel al d’Orsay non aggiungono granché a quelli di Botticelli e della «Galatea» di Raffaello (due padrini che Cabanel evoca per legittimare un nudo che sta a mezzo tra il paginone di «Playboy» squadernato su agosto e la réclame del borotalco); è vero che Picasso, fino alla «Donna coi capelli gialli» (1931) non sa bene che farsene dei capelli e, tutto sommato, si limita a omaggiare quelli, di difficile lettura, dell’«Olympia». Manet li aveva nascosti sul parato in un effetto tono su tono che, fuori di ogni creanza accademica, fa capire perché il vero scandalo del suo lavoro fosse, all’epoca, di natura estetica.

Certo, l’800 e il ‘900 coi capelli avranno un rapporto sempre da ricontrattare. E, nella seconda metà del secolo scorso, un poco come le barbe, sarà difficile lasciarli tranquilli. Dal ’62 i Beatles li avranno a caschetto. Jim Morrison come Alessandro Magno. Gli Stones, dipende. E Patty Pravo? Quanto a Pasolini, nel Discorso dei capelli (1973) racconterà di aver incontrato i primi capelloni a Praga. John Travolta e la compianta cara Olivia Newton-John raccomanderanno di impomatarli.
Rita Hayworth nel film «Gilda» (1946) diretto da Charles Vidor
Una campagna pubblicitaria sul gel (quello che i nostri padri chiamavano gommina o fissatore) della seconda metà degli anni Ottanta diceva: «Scolpisci i tuoi capelli». Fosse facile! Mezzo secolo prima, girando intorno alle donne piangenti e ad altri studi per «Guernica», Picasso, sempre lui, li aveva stesi con adibizione degna di miglior causa. Ma come li pettini degli spaghetti di ferro?

Per uno come mio padre, ventenne negli anni della seconda guerra, cresciuto in una casa dove le donne usavano il cosiddetto pettine fitto, i capelli come sineddoche del sesso, come arma letale di seduzione sono quelli di «Gilda». L’alzata di testa (dentro e soprattutto fuor di metafora) che la ventottenne Rita Hayworth inventa nel film, memorabile ma non indimenticabile, di Charles Vidor. Qualcuno le ha consigliato di rialzarli (fronti altissime, le donne fiamminghe di Petrus Christus). E quel gesto, come il sassofono di Charlie Parker, è una sventagliata di vita dopo le miserie di guerra. Speranze e turbamenti si sono incrociati in un film del 1946 di cui tutti ricordano i protagonisti (Glenn Ford quello maschile) e nessuno il regista.

Ma già su chi, come me, si avvia, due passi alla volta, alla soglia dei sessanta e dei capelli, ormai, ha solo ombre caravaggesche; su di me, Gilda che canta «dammi la colpa» ha meno presa del ritornello di un pezzo dei Dire Straits, «Lady Writer», del 1979 (avevo 13 anni e non permetterò a nessuno di dire che sia l’età più bella della vita), quando Mark Knopfler intona il ritornello: «Just the way that her hair fell down around her face… another time, another place». E ora? A rigore mancherebbe la schiena (la più bella? Il «Torso di giovinetto», 1928, di Arturo Martini oggi a Palazzo Ricci di Macerata); ma già sento chi, impegnato a rosicarle o a dipingersele, sta impetrando per parlare di unghie.

[Stefano Causa]
«Santa Caterina» di Alessandro Franchi nel ciclo di affreschi di Fontebranda a Siena
Capelli: feticci fra arte, poesia e cinema
Nel Medioevo (ma anche dopo) i capelli sono stati, oltre che ornamenti fondamentali della persona, anche sfide e simboli, come insegna nei suoi scritti Virtus Zallot. Il loro colore, la loro lunghezza, il portarli velati o svelati, il vestirsi con i capelli, come nella leggenda anglosassone di Lady Godiva, rivestivano significati precisi. Tagliarli (in certi luoghi della terra ancora oggi) voleva dire sfidare la società, iniziare una nuova vita, o essere umiliate o infamate, oppure ribellarsi e scegliersi un destino.

Caterina da Siena fu picchiata dai genitori quando si tagliò i capelli per non sposarsi (e così la raffigurò Alessandro Franchi nel ciclo di affreschi di Fontebranda a Siena); voleva farsi monaca e allora si riteneva che una donna con i capelli corti perdesse il 90 per cento della sua potenzialità seduttiva e del suo valore di scambio. Ma Caterina tenne duro, divenne monaca, mistica, santa, dottore della chiesa, copatrona d’Europa. Altro che fare la casalinga a Siena. E al diavolo i capelli.

È stato lungamente uno stereotipo che le donne belle dovessero essere tutte bionde con i capelli lunghi e inanellati. E io mi trovai a invidiare già in seconda elementare la mia compagna di banco che tutti vezzeggiavano per via dei suoi occhi azzurri e dei suoi lucenti boccoli biondi: era un punto di partenza inarrivabile che però in seguito non la salvò da una morte precoce. Simonetta Vespucci, la più bella di Firenze al tempo del Magnifico, la top model di Botticelli, bionda come il grano, sembrava più una svedese che italiana. E Botticelli ne fece l’immortale dea Venere.
Una ciocca dei capelli di Lucrezia Borgia
Petrarca dalla Valchiusa spasimava nei suoi sonetti sull’«aura che ‘l verde lauro et l’aureo crine / soavemente sospirando move» ovvero sul venticello che scuoteva la bionda capellatura di Laura. Pietro Bembo gli andava dietro a ruota con il «Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura / ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole» e poi si faceva mandare da Lucrezia Borgia una ciocca dei suoi luminosi capelli che è giunta fino a noi. Le brune poi si sposavano e le bionde magari restavano alla finestra ad aspettare un principe che non arrivava.

Nel Seicento, «sudicio e sfarzoso» di Manzoni (molto sudicio), si poetava sui pidocchi che saltellavano sul capino della propria bella e così il perugino Anton Maria Narducci, gnaulava a una «Bella pidocchiosa» affermando che gli immondi insettucci «Sembran fère d’avorio in bosco d’oro / le fère erranti onde sì ricca siete / anzi, gemme son pur che voi scotete /da l’aureo del bel crin natio tesoro».

Certo, guardando molti quadri del tempo ci si accorge che uomini e donne che vi sono rappresentati puzzano e hanno pelami sporchissimi. Caravaggio, che dipingeva le persone come esse erano, anche per i quadri sacri si ispirava a individui reali di Roma. I due discepoli di Emmaus nel quadro della National Gallery di Londra non sono molto puliti e quello in primo piano sulla sinistra ha palesemente dei capelli sporchi, ma anche quello sulla destra non se la passa bene a pulizia del capo e della barba e, tutto sommato, anche Cristo, da poco uscito dal sepolcro, sembra non essersi fatto la doccia e i suoi riccioli ricadono pesanti, un po’ unti e appiccicosi, e non indaghiamo oltre.
«Madame la princesse de Lamballe» (1776 ca) di Antoine-François Callett
Il Seicento, e poi il Settecento, furono i secoli delle parrucche e sa solo Dio quale fauna saltellante vi si aggirasse all’interno. Con la fine del Settecento le parrucche femminili crebbero, anzi lievitarono (oltre gli 80 centimetri) composte da capelli veri e da riporti con strutture interne pesanti come torri. Poco prima della rivoluzione francese raggiunsero proporzioni monumentali. Maria Antonietta e la sua grande amica Maria Teresa Luisa di Savoia principessa di Lamballe si misero intesta qualsiasi cosa e il parrucchiere Léonard che le pettinava divenne uno dei primi divi del settore. Dipinti celeberrimi e caricature testimoniano di questo delirio e di cosa siano capaci di architettare le donne per adornarsi. Le due citate dame, poi, persero la testa e anche la relativa parrucca, come noto.

Nel giro di pochi anni i «poufs» ( così si chiamavano queste costruzioni) si sgonfiarono come soufflè serviti in ritardo. Tutte divennero, come Madame Récamier delle eroine dell’antica Roma, delle virtuose madri dei Gracchi. La cosa durò poco, la virtù fu latitante, ma i capelli continuarono a ruotare vertiginosamente nel circo della moda cambiando continuamente foggia. Anche gli uomini, finalmente si tagliarono il codino e presero più o meno l’aspetto che hanno ancora oggi.

Nel ritratto di François-René de Chateaubriand realizzato nel 1809 da Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson lo si vede tutto scapigliato meditare sulle rovine di Roma, talmente scapigliato che Napoleone ironicamente commentò «Il a l’air d’un conspirateur qui descend par la cheminée». Ma essere spettinati ad arte era un vezzo a cui gli uomini a quel tempo non rinunciavano, come testimoniano i ritratti maschili europei di gusto romantico, da Shelley a Foscolo, tutti apparentati da prodigiosi pelami.
«Ritratto di François-René de Chateaubriand» (1809) di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson
L’Ottocento vide passare rapidamente le pettinature del primo impero, comunque ispirate al mondo classico, e giungere pettinature romantiche: i capelli restavano comunque per le donne elemento seduttivo basico. Ne sapeva qualcosa Elisabetta d’Austria, la capricciosa Sissi, che nelle sue lunghissime chiome tenne invischiato per molti anni il consorte Francesco Giuseppe, fino a che questi non si scocciò degli sgarbi della moglie e si trovò un’attrice, volgaruccia ma ragionevole, come amante fissa. Certo è però che il quadro di Franz Xaver Winterhalter che la raffigura nel 1864 in veste da camera ornata solo dal nodo dei suoi sterminati riccioli (un dipinto privato che l’imperatore teneva nelle sue stanze) fa di lei un mito di bellezza e poesia quasi ultraterrena.

Un momento prima di essere tagliati, finalmente, da Coco Chanel, i capelli divengono verso fino Ottocento e primo Novecento, per alcuni artisti, dei veri e propri feticci. Attraverso le poesie di Guido Gozzano è possibile, ad esempio, esplorare le intersezioni fra capelli/feticcio, letteratura ed arti visive. Gozzano infatti conferisce un posto molto importante alle capigliature nelle sue opere e, fra i tanti esempi, la poesia «Il sogno cattivo» appare esemplare: «Se guardo questo pettine sottile / di tartaruga e d’oro, che raffigura / opera egregia di cesellatura / un germoglio di vischio in nuovo stile / risogno un sogno atroce. Dal monile / divampa quella gran capellatura / vostra, fiammante nella massa oscura». Come non pensare alle «Meduse» di Arnold Böcklin, Franz von Stuck, Fernand Khnopff e Gustav Klimt?

Poi sarà il cinema a determinare l’importanza nuova dei capelli: quelli femminili però che quelli maschili anche all’arrivo negli anni Sessanta del Novecento della generazione Beat e dei Capelloni restano comunque sempre in secondo piano. Non c’è gara e gli uomini sul tema sono sempre poco interessanti sia che si allunghino i capelli, sia che se li taglino in forme estrose a pizzo, tendina o macramè, se li colorino in tutte le tonalità, o che stiano pelati. Nessuna immagine maschile può reggere contro Tippi Hedren, la Marnie di Alfred Hitchcock, che si sciacqua i capelli tinti di nero per non farsi riconoscere, torna del suo algido color biondo, e si guarda compiaciuta allo specchio.

[Arabella Cifani]

«Pas de Deux»
Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)
Le mani
I piedi
Le labbra
La passerina
Le tette
Gli occhi
I membri maschili
I nasi
I sederi
Le orecchie
I denti
I capelli
Le schiene

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