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Gli antichi romani consideravano i profumi uno dei piaceri più squisiti e nobili della vita


Plinio il Vecchio riteneva che il profumo fosse il più superfluo di tutte le forme di lusso in virtù del suo carattere effimero: infatti «gli unguenti perdono subito il loro odore e muoiono dopo un’ora che sono stati usati». La parola deriva dal latino fumus, un termine che rimanda alla volatilità: in origine gli ambienti venivano profumati bruciando resine, radici e legni che producevano fumi aromatici. E cosa c’è di più transitorio del fumo?

L’uso delle fragranze da parte degli esseri umani è molto antico. I primi tentativi di produrre profumi risalgono a epoche remote, ma furono i greci e i romani a far raggiungere a quest’arte una delle sue massime espressioni. In passato, per ottenere degli unguenti profumati, gli aromi venivano fissati con sostanze cremose o grasse, mentre l’uso dell’alcol come base si sarebbe diffuso solo a partire dal XIV secolo.

Una giovane versa del profumo in un alabastro. Museo Nazionale Romano

Una giovane versa del profumo in un alabastro. Museo Nazionale Romano

Foto: Scala, Firenze

Il profumo era composto da due elementi. C’era innanzitutto la parte liquida, costituita da una sostanza grassa che aveva il compito di amalgamare e conservare le fragranze. Si trattava di un olio vegetale, generalmente d’oliva, ma anche di sesamo o di lino. Gli oli più grassi – come quello di mandorle – avevano una capacità maggiore di trattenere gli odori. A questa base si potevano aggiungere dei conservanti e dei coloranti, come il cinabro o l’ancusa. Il secondo elemento era rappresentato dalle essenze: piante, fiori, radici o resine che venivano uniti all’olio per conferirgli l’odore caratteristico. Il repertorio degli aromi era molto ampio, anche se a dominare era il profumo delle rose. Tra le altre sostanze utilizzate c’erano la mirra, la cannella, lo zafferano, il nardo, il narciso o il cotogno.

Le formule per l’elaborazione dei profumi, nelle loro differenti varietà e qualità, potevano essere molto complesse. Plinio riporta gli ingredienti di una ricetta composta da olio di mandorle amare, agresto, cardamomo, giunco profumato, calamo aromatico, miele, vino, mirra, seme di balsamo, galbano e, per finire, resina di terebinto. Nel suo De materia medica Dioscoride specifica anche le quantità di ogni ingrediente, come i mille petali di rosa che, secondo lui, erano necessari per ottenere il profumo di tale pianta.

Creare una buona essenza

L’aroma si ricavava dalle materie vegetali tramite la pressatura e la macerazione a freddo o a caldo. Nella pressatura gli elementi odorosi venivano avvolti in un tessuto di lino e quindi spremuti. La macerazione a freddo consisteva nella tecnica dell’enfleurage: i petali venivano disposti su uno strato di grasso ed erano sostituiti periodicamente, fino a che il grasso non era completamente impregnato della fragranza. Se si voleva ottenere un aroma più intenso, l’operazione andava ripetuta varie volte. La macerazione a caldo era il metodo più comunemente utilizzato: non era molto diverso dal precedente, ma in questo caso il composto di essenze aromatiche e sostanze oleose veniva riscaldato in un pentolone o in un forno.

Scatola d'avorio con strumenti di bellezza. Museo archeologico nazionale, Napoli

Scatola d'avorio con strumenti di bellezza. Museo archeologico nazionale, Napoli

Foto: Dea / Album

La Campania era molto nota per la sua produzione di profumi su larga scala, che raggiunse dei livelli che potremmo definire protoindustriali. La varietà più famosa era il Rhodinum Italicum, elaborato a partire dalle rose che venivano coltivate nella regione. Nelle zone di Pompei, Ercolano e Paestum sono state identificate delle botteghe di profumieri con i torchi e i recipienti per la vendita. Gli scavi rivelano che la pressatura e l’enfleurage venivano eseguiti davanti ai clienti e che, quindi, il laboratorio e il negozio erano riuniti in un unico spazio.

A Roma i profumi si vendevano in botteghe specializzate, le tabernae unguentariae. Questi stabilimenti erano raggruppati in quartieri (vici unguentarii) dove si riunivano i professionisti del settore, come avveniva con le corporazioni medievali. Si trattava di gruppi familiari chiusi che custodivano i segreti dei processi produttivi, trasmettendosi le formule di generazione in generazione. Alcuni epitaffi funebri rivelano che pure le donne partecipavano all’attività, ma non è chiaro se fossero coinvolte solo nella vendita del prodotto o anche nella fase di elaborazione.

I contenitori iniziarono a rivestire un’importanza centrale. I prodotti di lusso richiedevano recipienti specifici, perché alcuni materiali conservavano gli aromi meglio di altri: l’alabastro, per esempio, era impermeabile e perfettamente stagno, due caratteristiche che lo rendevano particolarmente pregiato, anche se piuttosto caro. La ceramica, molto diffusa in Grecia, fu sostituita a Roma dal vetro, un materiale con proprietà di conservazione altrettanto buone ma riutilizzabile, riciclabile e molto più economico.

Profumi per tutti i gusti

Nell’antica Roma si profumavano tutti, ma uomini e donne usavano aromi diversi. Afferma Marziale in uno dei suoi epigrammi: «I balsami mi affascinano, sono veri profumi maschili. Donne, odorate pure delle dolci fragranze di Cosmo [famoso profumiere dell’epoca]».

Molti testi indicano chiaramente che profumarsi era una consuetudine diffusa tra entrambi i sessi. «Mica tutti possono odorare di unguenti esotici come te» dice Grumione a Tranione – entrambi personaggi maschili – nella Mostellaria di Plauto. Si narra che Nerone amasse cospargersi le piante dei piedi di profumo, e Svetonio riporta che l’imperatore aveva introdotto un curioso metodo per profumare la Domus Aurea, il suo lussuoso palazzo romano: «I soffitti delle sale per i banchetti erano costituiti da tasselli di avorio mobili e perforati, che permettevano di spargere fiori e profumi sui convitati».

Unguentario di vetro. IV secolo. Musée d'archéologie Méditerranéenne, Marsiglia

Unguentario di vetro. IV secolo. Musée d'archéologie Méditerranéenne, Marsiglia

Foto: RMN - Grand Palais

Le tipologie di fragranze variavano naturalmente a seconda delle classi sociali. I plebei utilizzavano profumi scadenti o adulterati, elaborati a partire da oli di bassa qualità (per esempio quello di olive verdi o di ricino) e aromatizzati con piante come il giunco odoroso. Era questo il caso delle prostitute. Adelfasia, un personaggio del Poenulus di Plauto, dice alla sorella: «Vuoi forse mescolarti a quelle prostitute […] di bassa lega, miserabili straccione che si profumano con unguenti da quattro soldi?». Nulla a che vedere con i profumi destinati alle élite, che erano più densi, venivano aromatizzati con prodotti esotici e potevano arrivare a costare cifre astronomiche. Il valore indiscutibile del profumo è ribadito da uno degli epigrammi di Xenia, un testo di Marziale in cui si descrivono gli scambi di doni durante le feste dei Saturnali: «Non lasciare mai agli eredi né unguento né vino. Si prendano i soldi: i vini e gli unguenti tienili per te». L’uso dei profumi era invece criticato dai moralisti. Nell’Atene di Solone furono vietati per legge. Gli spartani, noti per i loro costumi austeri, espulsero dai loro territori i mercanti di unguenti. Ricorda lo stoico Seneca in una delle sue opere: «I lacedemoni scacciarono dalla città i venditori di profumi e gli ordinarono di uscire in fretta dai loro confini, accusandoli di sprecare l’olio».

L’utilizzo delle fragranze costituiva una frivolezza imperdonabile anche per la maggior parte dei filosofi latini così come per alcuni imperatori. Nelle Vite dei Cesari Svetonio racconta che l’imperatore Vespasiano, «quando un giovane cui aveva concesso la carica di prefetto venne a ringraziarlo, tutto profumato, fece un cenno di disprezzo e gli disse severamente: “Avrei preferito che puzzassi di aglio!”, quindi gli revocò la nomina».

Tuttavia in certi contesti i profumi erano perfettamente accettati. Per esempio l’uso di oli aromatizzati nel mondo dello sport è attestato fin dall’epoca omerica. A Roma gli atleti che andavano ad allenarsi alle terme portavano generalmente con sé gli unguentari, dei recipienti con i preziosi oli che si spalmavano addosso prima dell’esercizio e poi rimuovevano con una specie di raschietto di ferro o bronzo (lo strigile).

Un sacerdote versa dell'olio profumato su un toro. Historisches Museum, Berna​

Un sacerdote versa dell'olio profumato su un toro. Historisches Museum, Berna​

Foto: Akg / Album

Per gli dei e i defunti

Nell’antichità si usava profumare gli ambienti dei templi e delle case in occasione di riti e cerimonie sacre. Gli unguenti erano offerti agli dei o agli antenati sugli altari di famiglia, e venivano cosparsi sulle statue di culto e sugli animali da sacrificare. Ma avevano anche un ruolo centrale nel culto dei morti. «Il godimento dei profumi è stato ammesso […] tra i piaceri più nobili e squisiti della vita, e il suo uso ha iniziato a estendersi anche ai riti funebri», dice Plinio nella sua Naturalis Historia.

Gli unguentari di vetro, che contenevano gli oli profumati da spalmare sul corpo del defunto, divennero degli elementi ricorrenti delle necropoli romane. Parlando della cannella, lo stesso Plinio riferisce: «In un anno non si produce la quantità che l’imperatore Nerone bruciò in un solo giorno per le esequie di [sua moglie] Poppea».

Affresco degli amorini profumieri su un triclinio della casa dei Vettii, Pompei​

Affresco degli amorini profumieri su un triclinio della casa dei Vettii, Pompei​

Foto: Foglia / Scala, Firenze

Gli affreschi rinvenuti nella lussuosa casa di una famiglia pompeiana di commercianti, i Vettii, raffigurano degli amorini intenti a svolgere diversi compiti, tra i quali la fabbricazione e la vendita di profumo, come si può vedere in questo fregio.

Inizialmente due amorini martellano i cunei del torchio per spremere l’olio. Alla loro sinistra, un terzo amorino rimesta in olio caldo un pentolone con una macerazione di piante. Al centro dell’affresco, due amorini mescolano un preparato in un contenitore alto e, alla loro sinistra, un altro regge un’ampolla davanti a un armadio pieno di recipienti. Nell’ultima scena una cliente prova il profumo sul polso.

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