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Una nuova ricerca internazionale rivela i segreti della longevità nelle specie arboree.

PUBBLICATO 2 OTT 2020, 16:55 CEST
Uno scorcio di Foresta Amazzonica in Perù vista dalla volta arborea.

Uno scorcio di Foresta Amazzonica in Perù vista dalla volta arborea.

FOTOGRAFIA DI ROEL BRIENEN, UNIVERSITY OF LEEDS

Una nuova ricerca internazionale, pubblicata su Nature Communications, dimostra per la prima volta il carattere universale della relazione inversa fra velocità di accrescimento e longevità negli alberi. Gli alberi a rapida crescita hanno minori aspettative di vita e i nuovi risultati dimostrano che questa legge è all’opera in specie evolutivamente distanti (dalle conifere alle piante a fiore) nei diversi climi del Pianeta (dalle fredde foreste della taiga fino a quelle tropicali). 

Mappando un maestoso faggio alto 40 m nella Riserva Statale di Foresta Umbra nel Parco Nazionale ...

Mappando un maestoso faggio alto 40 m nella Riserva Statale di Foresta Umbra nel Parco Nazionale del Gargano 

FOTOGRAFIA DI LUCA DI FIORE

Geografia della longevità delle specie arboree

Per raggiungere questo risultato è stato necessario costruire una banca dati unica caratterizzata da oltre 200mila serie di crescita ottenute da 110 specie arboree: il risultato di uno sforzo internazionale che ha unito gruppi di ricerca europei, nord e sud americani, coordinati da Roel Brienen della School of Geography dell’Università di Leeds (UK). Allo studio hanno partecipato per l’Italia i ricercatori del Laboratorio di Dendroecologia dell’Università della Tuscia Alfredo Di Filippo, Michele Baliva e Gianluca Piovesan che hanno contribuito con i dati di molti anni di ricerche di campo dedicate alla scoperta di alcune fra le più integre foreste vetuste d’Europa e allo studio dei segreti della longevità degli alberi. “Questo studio spinge in avanti le conoscenze sulla fenomenologia della longevità nelle specie arboree, finora concentrate soprattutto sulle specie di foreste boreali o temperate – dichiara Alfredo Di Filippo - In un precedente lavoro sugli alberi temperati decidui dell’Emisfero Nord avevamo già descritto come i fattori che riducono la crescita promuovono la longevità negli alberi. Dal Giappone agli Stati Uniti, le specie mesofile (come faggio o aceri) avevano mostrato una diminuzione di 30 anni dell’età massima per ogni aumento di 1°C della temperatura del sito. Come conferma lo studio, le riduzioni di longevità non sono il risultato diretto della temperatura, ma dell’effetto indiretto esercitato dal clima locale sulla produttività arborea”.

In realtà la legge che lega crescita e longevità è da lungo conosciuta in dendrocronologia. “Gli alberi, come tutti gli organismi viventi, tendono a massimizzare la fitness, ossia il patrimonio genetico trasmesso alle generazioni successive. Ogni specie lignificante, in base al programma scritto nel patrimonio genetico e in relazione a un determinato ambiente, investe i fotosintetati in modo diverso tra crescita (per vincere la competizione), riproduzione (per lasciare alle generazioni future il compito di perpetuare la specie) e processi metabolici per la sopravvivenza (accumulo di riserve, deposizione nel legno di composti antisettici, massa volumica) – continua Gianluca Piovesan - Ciò che rende però gli alberi di estremo interesse è l’assenza di un invecchiamento programmato nel cambio, quell’insieme di cellule meristematiche che rigenerano i tessuti di conduzione. In teoria, quindi, gli alberi sono immortali e si possono accrescere per anni e secoli praticamente all’infinito. Allora perché un albero muore? Il perché di questa relazione inversa tra crescita e longevità, valida sia a livello interspecifico sia a quello intraspecifico, non è del tutto chiaro. Sembra infatti che una determinata specie di albero, raggiunta una dimensione limite (massima per le condizioni ecologiche locali) divenga più suscettibile ai disturbi abiotici (vento, siccità, fulmini) e/o biotici (attacco di insetti) che ne determinano la morte”.

LEGGI L’INTERVISTA ESCLUSIVA AD ALFREDO DI FILIPPO

Anelli legnosi di Hymenaea courbaril (Leguminosae) specie delle foreste neotropicali. Gli anelli si formano nella stagione umida e ...

Anelli legnosi di Hymenaea courbaril (Leguminosae) specie delle foreste neotropicali. Gli anelli si formano nella stagione umida e sono delimitati da bande distinte di cellule vive (“parenchima marginale”). 

FOTOGRAFIA DI GIULIANO M. LOCOSSELLI E MILENA GODOY-VEIGA

Un mondo tutto da esplorare

Il progetto di ricerca di Alfredo Di Filippo con la National Geographic Society nasce proprio dall’esigenza di esplorare i misteri che ancora avvolgono i patriarchi verdi delle foreste vetuste, monumenti plasmati dall’interazione centenaria con l’ambiente circostante. Uno studio ispirato dalla diversità che esiste nella geometria espressa già dalla singola specie arborea all’interno della stessa foresta, o in diverse foreste. “La longevità degli alberi rappresenta un campo di ricerca tanto affascinante quanto misterioso che continua a porre sfide metodologiche enormi – dichiara Alfredo Di Filippo - Approfonditi studi empirici sulla longevità arborea sono ancora scarsi e basati su poche misure rilevate a terra che poco svelano su come un albero nella sua totalità riesca a mantenere per secoli o millenni una struttura pesante tonnellate e articolata in complesse ramificazioni”.

I rari studi che finora si sono avventurati nel mappare struttura e crescita degli alberi vetusti hanno mostrato, per esempio nelle sequoie in California o nei grandi eucalipti australiani, che alberi molto grandi e vecchi continuano a essere capaci di sostenere la propria produttività nel tempo per morire solo quando un evento di disturbo esterno all’ecosistema li uccide. In questo contesto, quindi, crescere lentamente consente all’albero di mantenere dimensioni ridotte per essere meno esposto ai disturbi e agli stress. Piante più piccole sono anche in grado di riparare più facilmente danni strutturali accumulati durante le loro vite plurisecolari.

D’altro canto, molti studi fisiologici indicano che l’aumento di dimensioni, con il conseguente aumento dell’apparato fogliare, espongano maggiormente la pianta a squilibri fisiologici capaci di provocare alterazioni del trasporto idraulico e sbilanciamenti nell’assimilazione netta del carbonio. Per questi motivi alcuni studi predicono che ripetuti e persistenti fenomeni siccitosi stiano già esercitando sulla vegetazione un’importante pressione selettiva, spingendola nel lungo periodo a cambiamenti profondi che potrebbero addirittura portare le future foreste ad essere caratterizzate da alberi sempre più piccoli e meno longevi.

Faggi vetusti vicino al limite forestale in Valle Cervara, Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.

Faggi vetusti vicino al limite forestale in Valle Cervara, Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.

FOTOGRAFIA DI ALFREDO DI FILIPPO

Longevità e mortalità nel futuro delle foreste

Lo studio ha importanti implicazioni per il fondamentale ruolo di riserva (stock) che le foreste rivestono nel ciclo del carbonio. Una migliore comprensione di lungo periodo delle relazioni fra ambiente, crescita e longevità arborea potrà infatti contribuire a migliorare i modelli delle interazioni fra biosfera e atmosfera e predire con maggior confidenza il futuro ruolo delle foreste nel mitigare i gas serra. Le foreste che stanno rispondendo al global change con un aumento di crescita arborea potrebbero, nel breve periodo, aumentare la loro capacità di stoccare carbonio. In base a questo studio, però, nel lungo periodo la ridotta longevità conseguente all’accelerazione di crescita implicherà un aumento di mortalità e quindi di emissioni di anidride carbonica con conseguente riduzione della capacità delle foreste di abbattere i gas serra. Alcuni studi pubblicati dal gruppo dell’Università di Leeds hanno già descritto aumenti significativi della mortalità nella Foresta Amazzonica. 

La struttura unica del faggio cinquecentario della Riserva Integrale Statale di Sasso Fratino nel Parco Nazionale ...

La struttura unica del faggio cinquecentario della Riserva Integrale Statale di Sasso Fratino nel Parco Nazionale Foreste Casentinesi.

FOTOGRAFIA DI ALFREDO DI FILIPPO

Il ruolo delle foreste naturali

Questi studi unici sono possibili solo grazie alla protezione in Parchi e Riserve di foreste vetuste, ecosistemi salvaguardati dall’alterazione dell’uomo, che consentono ai loro alberi di esprimere appieno il loro potenziale biologico. 
Inoltre, la competizione estrema sotto la volta arborea, fattore distintivo di molte foreste naturali, è un meccanismo fondamentale per rallentare la crescita e favorire la longevità: molte specie di ambienti forestali riescono a sopravvivere attendendo anche oltre cento anni sotto la copertura degli alberi dominanti prima di diventare parte della volta arborea.
Se da un lato è complesso predire il peso di tutti i fattori che portano una pianta a crescere più o meno, è invece certo che tutelare la naturalità di questi ecosistemi garantisce il mantenimento in ciascun territorio dei processi biologici con cui le specie possono continuare ad adattarsi al cambiamento, primo fra tutti quello climatico. Nelle foreste gestite, invece, più povere geneticamente e strutturalmente, minimizzare l’alterazione strutturale e favorire pratiche che promuovono un duraturo accumulo di suolo rimangono una strategia prioritaria per garantirne la resilienza di lungo periodo ai persistenti estremi climatici che stiamo osservando.

Questo articolo è stato pubblicato sotto l’attenta supervisione del botanico ed Explorer di National Geographic Alfredo Di Filippo
 

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