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Gli antichi greci consideravano gli schiavi quasi come "bestiame umano". Erano acquisiti come bottino di guerra, venduti all’asta e utilizzati nei lavori più duri, come nelle miniere. Tuttavia, alcuni schiavi riuscivano a progredire e a raggiungere la libertà


L’antica Grecia, culla della democrazia, fu una società schiavista, anche se molti storici si rifiutano di definirla come tale, sostenendo che il numero degli schiavi non superò mai quello dei cittadini, a differenza di quanto avvenne in alcuni stati del sud degli Stati Uniti all’inizio del XIX secolo. Ad esempio, nell’Atene classica, che aveva una popolazione di circa 430mila abitanti, c’erano probabilmente tra i 60mila e i 150mila schiavi.

In entrambi i casi si tratta di una cifra enormemente rilevante. Alcuni di loro provenivano dalla stessa Grecia, dato che in determinate circostanze i cittadini potevano perdere la libertà. Era il caso, per esempio, dei bambini esposti (ovvero abbandonati) o di quelli venduti dalle famiglie povere che non potevano permettersi di sfamarli, o ancora dei figli degli schiavi stranieri, che ereditavano la condizione servile dei loro genitori. In genere gli schiavi venivano da territori “barbari”, nel doppio senso che i greci dell’epoca classica davano a questo termine: quello di un paese “straniero” e allo stesso tempo “selvaggio”.

Contrariamente alla credenza popolare la maggior parte di servi, ballerini e musicisti ai banchetti greci erano maschi, anche se su questo vaso del V secolo a.C. è raffigurata una ragazza

Contrariamente alla credenza popolare la maggior parte di servi, ballerini e musicisti ai banchetti greci erano maschi, anche se su questo vaso del V secolo a.C. è raffigurata una ragazza

Foto: Scala, Firenze

Origine e prezzo degli schiavi

A quel tempo molti schiavi diventavano tali dopo esser stati prigionieri di guerra, una fonte di schiavitù considerata legale in epoca classica, nonostante gli scrupoli incipienti di alcuni filosofi come Aristotele, che scrisse nella Politica: «C’è una schiavitù stabilita dalla legge [...] in base alla quale tutto ciò che è conquistato in guerra appartiene ai vincitori. Eppure molti esperti in legge confutano tale diritto [...] poiché considerano terribile che chi è vittima di violenza debba essere schiavo di chi la esercita [...] Su questo punto esistono opinioni diverse, anche tra i saggi».

Un’altra fonte di questo tipo di manodopera era la pirateria. Ai pirati, infatti, era permesso catturare schiavi, sia in mare aperto che durante gli attacchi alle città costiere. I fenici erano particolarmente attivi in questo tipo di operazioni, come testimonia l’Odissea di Omero. In un passaggio dell’opera si racconta come una nave di «fenici rapaci, che indossavano mille ninnoli» raggiunge una piccola isola delle Cicladi, Siro o Arados, dove regnava Ctesio. Uno dei pirati seduce una schiava del palazzo, anche questa fenicia. La giovane si confida con il suo amante, narrandogli brevemente il suo triste destino: «Sono orgogliosa di essere di Sidone, ricca di bronzo. Sono la figlia del facoltoso Aribante. Ma un giorno, al ritorno dalla campagna, i pirati tafi mi rapirono, mi portarono qui via mare e mi vendettero al proprietario del palazzo che vedi laggiù».

I tafi erano gli antichi abitanti della regione greca dell’Acarniana, che nei poemi omerici competono con i fenici in atti crudeli di pirateria. Nel racconto di Omero, la schiava e il suo seduttore tramano un piano di fuga nel quale la ragazza compie un rapimento simile a quello subìto da lei stessa quando era solo una bambina. La serva infatti rapisce il figlio più giovane del re, Eumeo, che lei stessa accudiva. Questi viene successivamente venduto al re di Itaca e rimane al servizio di suo figlio Ulisse. Quando Ulisse torna a casa dopo venti anni di assenza (passati a combattere nella guerra di Troia e in un lungo e difficile viaggio di ritorno), la prima persona che incontra è proprio il suo fedele servo Eumeo, che riconosce nonostante il tempo trascorso.

Rincontro di Penelope e Ulisse sotto lo sguardo, tra gli altri, del guardiano dei porci Eumeo, accovacciato. Piastra di terracotta del V secolo a.C.​

Rincontro di Penelope e Ulisse sotto lo sguardo, tra gli altri, del guardiano dei porci Eumeo, accovacciato. Piastra di terracotta del V secolo a.C.​

Foto: Scala, Firenze

Agli schiavi catturati dai pirati fenici si aggiungono inoltre quelli ottenuti dai greci nei frequenti saccheggi e nelle incursioni effettuate in prossimità delle città e degli insediamenti coloniali. È per questo che tra la popolazione schiava greca abbondavano frigi, lidi, lici e cari, popoli vicini dell’Asia Minore; traci e sciti del nord della Grecia o cirenaici dell’attuale Libia. D’altro canto, era ritenuto indegno schiavizzare i prigionieri frutto di conflitti militari con altre popolazioni ellene.

In ogni caso gli schiavi arrivavano a migliaia nei porti greci sulle coste del Mediterraneo e del mar Nero, come quelli del Pireo, di Corinto ed Egina, o quelli della costa orientale del mar Egeo, come Efeso e Chio. Tutti questi luoghi divennero importanti centri per la compravendita di schiavi, anche se l’isola centrale di Delo, nell’arcipelago delle Cicladi, finì per avere il sopravvento sugli altri.

Il prezzo di vendita degli schiavi variava notevolmente in base alla specializzazione di ciascuno. Nella sua opera Memorabili Senofonte fa dire a Socrate: «Un servo può valere due miniere, un altro meno della metà di una miniera, un altro cinque miniere, e un altro ancora non meno di dieci». Nonostante ciò, si calcola che orientativamente il prezzo medio di uno schiavo fosse equivalente allo stipendio annuale di un operaio edile.

Ad Atene a ogni luna nuova si organizzava un mercato di schiavi. Avveniva nell’agorà, dove gli schiavi erano messi su piattaforme rotonde o kykloi (“circoli”), forse in modo da poterli osservare bene

Ad Atene a ogni luna nuova si organizzava un mercato di schiavi. Avveniva nell’agorà, dove gli schiavi erano messi su piattaforme rotonde o kykloi (“circoli”), forse in modo da poterli osservare bene

Foto: H. M. Herget / NGS

Privi di diritti

I greci non avevano dubbi sulla legittimità della schiavitù come istituzione. Dal loro punto di vista, solo popoli che gli elleni consideravano esotici e arretrati, come quelli dell’antica India, potevano farne a meno. Dal punto di vista giuridico, lo schiavo greco –uomo, donna o bambino– era considerato alla stregua di un oggetto che faceva parte del patrimonio del suo padrone e non aveva nessuna capacità giuridica o identità politica. Il lessico riflette questa espropriazione radicale. Lo schiavo talvolta era chiamato andrópodon, un termine che deriva da tetrápodon, “quadrupede, bestiame”. Altre volte, i greci si riferivano ai loro servi con il termine doûlos, parola che designava invece lo “schiavo” in quanto essere privo di quella “libertà” che definisce, meglio di qualsiasi altro attributo, l’ideale elleno di uomo.

Nonostante il severo principio giuridico della mancanza di diritti dello schiavo, nella pratica le sue condizioni di vita dipendevano dalla volontà del padrone, per cui esistevano situazioni molto diverse tra loro. L’esempio di Ulisse con il suo schiavo Eumeo indica la benevolenza di un padrone intelligente. La vicenda dell’eroe e del suo fedele servo è stata senza dubbio esemplare nel mondo ellenistico. Infatti, si pensava che trattare bene gli schiavi convenisse agli interessi del padrone. Come scrisse Senofonte nel libro Economico, il suo trattato sul governo della casa: «Gli schiavi cercano di scappare spesso se sono incatenati, mentre se sono sciolti lavorano di buon grado e non fuggono». Eschilo, d’altro canto, nel suo Agamennone, fa dire a un nobile che accoglie la sua nuova schiava: «È vantaggioso avere padroni altolocati. Chi fa fortuna improvvisamente è più crudele del dovuto con i suoi schiavi. Da noi ti puoi aspettare ciò che è stabilito dalla norma».

Gli schiavi delle miniere sopravvivevano circa due anni. Su questo vaso del V secolo a.C. è raffigurato un minatore

Gli schiavi delle miniere sopravvivevano circa due anni. Su questo vaso del V secolo a.C. è raffigurato un minatore

Foto: Age fotostock

   

Utili per qualsiasi lavoro

Il destino degli schiavi era legato principalmente al tipo di lavoro cui erano destinati. I più sfortunati erano probabilmente i minatori. Migliaia di uomini e bambini lavoravano incatenati nelle miniere del Laurio, a sud di Atene, in condizioni pessime e inumane. Da loro dipese per secoli l’estrazione del minerale emblema del potere ateniese: l’argento con il quale si coniava la dracma, la moneta più diffusa nel Mediterraneo nel V secolo a.C. In guerra, gli opliti della fanteria e della marina erano assistiti da numerosi schiavi, secondo Pausania. Inoltre, fonti artistiche e letterarie riportano la presenza di schiavi maschi e femmine nel campo del piacere carnale.

Nell’agricoltura gli schiavi si occupavano delle coltivazioni e raccoglievano i frutti della terra, preservavano le foreste e abbattevano gli alberi necessari a ottenere il legno per la costruzione e per le case. Anche il settore dell’artigianato dipendeva dalla loro manodopera: nelle botteghe di fabbri, orafi e ceramisti lavoravano uomini addestrati a questi lavori. C’erano finanche schiavi poliziotti, calzolai, barbieri e, in gran numero, domestici. Tra questi ultimi, infine, gli educatori e le balie erano particolarmente rispettati e apprezzati, poiché erano i veri responsabili dell’istruzione e dell’alimentazione di bambini e ragazzi delle migliori famiglie.

Una categoria speciale di schiavi era poi quella dei demósioi o “schiavi pubblici.” È noto come il popolo gli delegasse una parte considerevole dell’amministrazione civica: redigevano testi, amministravano gli archivi, verificavano la qualità delle monete circolanti nelle agorà e si occupavano della contabilità pubblica. C’erano anche commissari schiavi, come quello descritto da Aristofane nella sua commedia Lisistrata, e alcuni sapevano condurre un’asta pubblica, come riportato da Erodoto. Gli schiavi pubblici, a differenza degli altri, avevano molte possibilità di progredire e di emanciparsi, poiché il contratto con lo stato prevedeva per loro il diritto a percepire uno stipendio e a possedere dei beni. In definitiva molti aspetti del “civilizzato” mondo greco dipesero direttamente dallo sfruttamento di manodopera “barbara” e forzata.

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