E’ giunta la triste notizia della scomparsa di Elena Obraszova la cantante pietroburghese è stata sicuramente una delle più autentiche voci di mezzosoprano drammatico documentate discograficamente ed una straordinaria interprete del grande repertorio operistico italiano e russo.
Nata a Leningrado il 7 luglio 1939 aveva sopportato da bambina i tragici giorni dell’assedio nazista iniziando dopo la guerra gli studi, fra il 1954 e il 1957 si era musicalmente formata al conservatorio Čajkovskij debuttando nello stesso 1957 a Rostov. Nel 1958 entra al conservatorio di Leningrado e dal 1962 è membro stabile della compagnia del Teatro Bolšoj di Mosca debuttando nel “Boris Godunov” di Mussorgskij. Proprio con i complessi moscoviti si farà conoscere in Occidente e soprattutto dagli anni 70 la sua carriera si è regolarmente svolta su entrambe i lati della cortina di ferro con sistematiche presenze sui palcoscenici europei – dove rapidamente divenne fra le cantanti preferite dai maggiori direttori – e al contempo un’attività regolare in Unione Sovietica dove era un’autentica icona riconosciuta e celebrata con le maggiori onorificenze previste dall’ordinamento sovietico – Eroe del lavoro socialista e membro dell’Ordine di Lenin.
La voce della Obraszova era la perfetta incarnazione del mezzosoprano drammatico, robustissima, compatta, omogenea su tutta la linea, con centri di straordinaria sonorità, gravi pieni e robusti e acuti quasi sopranili, a queste doti prettamente vocali si univano un naturale istinto drammatico e un non comune fascino scenico con quei grandi occhi blu intensi e avvolti di profondo mistero come le acque dell’Onega o del Ladoga capace di accentrare su di se l’attenzione dello spettatore e se a volte questa dimensione istintuale la portava ad eccedere in soluzioni di gusto non sempre raffinatissimo quando giustamente indirizzato da un direttore di grande valore e sensibilità questo fuoco poteva portare a risultati straordinari.
Ovviamente il suo repertorio d’elezione era quello russo, i grandi ruoli creati per voci mezzosopranile da Čajkovskij, dai compositori del Gruppo dei Cinque e dai loro epigoni di epoca sovietica di cui è stata interprete di straordinaria efficacia in un continuo e irrisolvibile dualismo con Irina Arkhipova. ideali per temperamento i personaggi dominati dal fuoco della passione ed eccola Marina altera e regale, Chončacovna di sensualità tutta orientale, Marfa estrema nel misticismo e nella passione, Hélène Kuragina aristocraticamente corrotta – e proprio in questo ruolo incanto il pubblico scaligero nella sua prima apparizione in Italia in una tournée del Bolšoj – ma altrettanto interessanti le letture di ruoli dal carattere decisamente più lirico e stilizzato come la Polina di “Pikovaja dama” e sempre nell’estremo capolavoro čajkovskijano il ruolo della vecchia contessa a cui negli ultimi anni ha saputo dare un’intensità che teme ben pochi confronti. L’ampiezza dell’estensione e la facilità nel settore acuto gli hanno permesso di dare una delle più compiute interpretazioni di un ruolo dalla tessitura ibrida e dal non comune impegno vocale come la protagonista dell’”Orleanskaija deva” di Čajkovskij.
Le caratteristiche vocali se perfette per il repertorio russo lo sono altrettanto per i grandi ruoli verdiani anch’essi spesso richiedenti una vocalità di tipo Falcon che era quella naturalmente posseduta dalla Obraszova. E se la Fenena discografica con Muti sorprende per la capacità di piegare tale dovizia di mezzi ad un’espressività raccolta e contenuta sono ovviamente Amneris ed Eboli i ruoli verdiani in cui la cantante russa sarà soprattutto ricordata e fra i due proprio la principessa spagnola ha segnato per la cantante uno dei maggiori trionfi con la partecipazione alle mitiche recite scaligere dirette da Abbado con la regia di Ronconi che rappresentano una delle pagine più gloriose della storia scaligera recente e sempre con Abbado fu rilevantissima Ulrica in “Un ballo in maschera”. Dal repertorio verdiano veniva naturale il passaggio a quello verista e della giovane scuola che per la Obraszova ha significato soprattutto la Principessa di Bouillon dell”Adriana Lecouvreur” di Cilea perfetta per la sua voce possente e squillante ad un tempo e Santuzza nella mascagnana “Cavalleria rusticana”, molti la ricorderanno nella trasposizione cinematografica firmata da Pretre e Zeffirelli.
Poi il repertorio francese, anch’esso affrontato regolarmente con grande successo e più che la sua Dalila di un’opulenza esotica e sensuale come il Sardanapalo di Delacroix va necessariamente ricordata la sua Carmen documentata da due edizioni video – a Mosca con Elmer e soprattutto a Vienna con sul podio la magia di Kleiber e la sobria, asciutta ed essenziale regia di Zeffirelli – meno maliarda di altre, forse meno femminile ma magnetica e possente, quasi aspra nella sua femminilità profonda e magmatica come la madre terra e di fronte a questi esempi colpisce ancora di più la sua Charlotte – da sentire l’edizione discografica diretta da Chailly con un Domingo in gran forma nel role-titre – il cui il sontuoso materiale è piegato alle ragioni di un intimismo sofferto, di un riserbo imposto che quando si schianta – da brividi le sue frasi nel IV atto – raggiunge una forza autenticamente universale.
Terminata la carriera come cantante dal 2007 dirigeva il teatro Mikhajlovskij di San Pietroburgo e dal 2009 cui affiancava attività didattica e di consulenza. La nuova Russia post-sovietica gli aveva concesso l’Ordine al merito per la patria e l’ordine di San Demetrio. Per quanto inevitabili le dipartite di artisti così grandi lasciano sempre un vuoto profondo ma la grandezza della loro arte è fortunatamente destinata ad abbattere i miseri limiti del tempo umano.
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