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L’Italia del Trecento raccontata da Dante

Nella Divina Commedia, il sommo poeta muove una lucida e appassionata denuncia della violenza e della corruzione diffuse nella Penisola all’inizio del XIV secolo


Dietro la narrazione di un viaggio compiuto da Dante Alighieri nell’aldilà, sotto la guida del poeta latino Virgilio e di Beatrice, la donna amata, la Commedia  questo il titolo che il suo autore le aveva dato, e che già poco dopo la sua morte fu modificato in Divina Commedia – è un vivido affresco dell’epoca in cui egli visse, i primi anni del Trecento, oltre che una potente allegoria che riflette la visione del mondo propria della Cristianità medioevale.

L’Inferno di Dante raffigurato da Sandro Botticelli (XV secolo). Il dettaglio mostra ruffiani, seduttori e adulatori, collocati nell’ottavo girone

L’Inferno di Dante raffigurato da Sandro Botticelli (XV secolo). Il dettaglio mostra ruffiani, seduttori e adulatori, collocati nell’ottavo girone

Foto: Bpk / Scala, Firenze

Delle tre cantiche che formano l’opera, il poeta scrisse la prima, l’Inferno, fra il 1306 e il 1309, il Purgatorio fra il 1310 e il 1314 e il Paradiso fra il 1316 e il 1321, concludendo quindi proprio poco prima della morte, avvenuta il 14 settembre 1321.

Il viaggio nell’aldilà è collocato in un momento molto preciso: la Settimana Santa dell’anno 1300. Molto probabilmente la ragione di questa scelta fu che nel 1300 era stato proclamato da papa Bonifacio VIII anno del Giubileo, che concedeva indulgenza plenaria a tutti coloro che si fossero recati a Roma, e ciò produsse una grande mobilitazione di fedeli. Lo stesso Dante, che aveva appena compiuto 35 anni di età, vi giunse in pellegrinaggio.

Così il rinnovamento spirituale del mondo cristiano coincide con quello personale del poeta, desideroso di uscire dalla selva oscura del peccato e raggiungere la rigenerazione spirituale. Questa è anche la ragione per cui il viaggio ha luogo durante la Settimana Santa, che celebra la resurrezione. Il protagonista è quindi Dante ma, nel momento in cui gli è dato da Dio lo straordinario privilegio di visitare il mondo delle anime, rappresenta anche ogni uomo che abbia bisogno dell’aiuto soprannaturale della grazia divina per potersi liberare del pericolo sempre incombente di perdere la propria anima.

Un corteo di peccatori

Dante fu un grande poeta poiché seppe scrivere la storia e la memoria collettiva, personale e anche biologica e naturale nelle cifre dell’eternità: un istante all’interno della ruota infinita dell’universo. Egli riesce, nei gironi dell’inframondo, a menzionare fatti e personaggi di tutte le epoche: eroi, artisti e protagonisti della società e dei conflitti sin dall’antichità.

In particolare, la realtà storica della sua epoca ha uno spazio tanto rilevante che difficilmente il lettore dimentica i versi che la descrivono.

Statua di Dante di Enrico Pazzi. XIX secolo. Firenze

Statua di Dante di Enrico Pazzi. XIX secolo. Firenze

Foto: T. Bognár / Age Fotostock

La composizione della Commedia è anche il risultato di un evento traumatico nella vita di Dante: l’esilio forzato dalla sua città. Nel corso del XIII secolo, Firenze era stata al centro di continui conflitti fra i guelfi, sostenitori del papato, e ghibellini, al fianco dell’imperatore. I primi si erano imposti nel 1268, ma negli ultimi anni del secolo scoppiò una guerra fra due fazioni interne, i guelfi bianchi e i guelfi neri. Dante apparteneva ai bianchi, per conto dei quali aveva ricoperto diverse cariche di governo, e quando nel 1301 i neri conquistarono la città, per sfuggire alla morte non potè più far rientro a Firenze: egli era infatti stato sorpreso da questi eventi mentre si trovava a Roma come ambasciatore. Nel 1302, Firenze lo condannò a morte in contumacia con altri esiliati.

I guelfi neri presero Firenze nel 1301 ed esiliarono i rivali: Dante trovò rifugio a Ravenna

Queste circostanze si riflettono nella Commedia, in particolare nell’Inferno, molto più centrato sulla situazione fiorentina rispetto alle altre due cantiche, che acquisiscono una dimensione più universale e integrano fatti e notizie della penisola italiana e del mondo intero.

Dante vi compie delle riflessioni sulle cause dei mali della sua città natale: nel secondo girone dell’Inferno, quello dei golosi, il poeta incontra Ciacco, un fiorentino che pronuncia la prima profezia sulle vicende politiche di Firenze preannunciando una lunga e sanguinosa contesa fra le due fazioni e l’affermazione dei guelfi neri. Egli spiega inoltre al suo concittadino che cosa abbia originato la guerra civile: «superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi».

Il Palazzo Vecchio di Firenze fu edificato a partire dal 1298, tre anni prima che Dante fosse costretto all’esilio dalla vittoria dei suoi rivali politici

Il Palazzo Vecchio di Firenze fu edificato a partire dal 1298, tre anni prima che Dante fosse costretto all’esilio dalla vittoria dei suoi rivali politici

Foto: Henglein And Steets / Corbis / Cordon Press

   

Nel XVI canto del Paradiso, Dante incontra invece Cacciaguida, suo trisavolo, che ricorda l’epoca precedente le guerre civili, in cui Firenze «si stava in pace, sobria e pudica», abitata da famiglie modeste che non ostentavano la loro ricchezza. La corruzione si sarebbe diffusa in tempi successivi, anche in seguito all’arrivo di «genti nove», famiglie attratte dall’improvvisa ricchezza creata dai commerci e dall’usura: nel corso del XIII secolo la popolazione sarebbe cresciuta di dieci volte, passando da 10.000 abitanti nel 1200 a 110.000 nel 1300. L’avarizia trasformerà Firenze nella «città infernale», il centro stesso dell’Averno, i cui abitanti sembrano più bestie che esseri umani. È ancora Ciacco ad affermare che a Firenze «già trabocca il sacco» dell’invidia. Nell’ottavo girone dell’Inferno, Dante incontra cinque ladri fiorentini con le mani legate dietro la schiena da serpenti, che subiscono terribili trasformazioni: sono i cinque politici che hanno saccheggiato il tesoro del municipio.

Firenze non è però la sola città oggetto delle invettive dantesche. Pisa viene definita «vituperio delle genti del bel paese là dove ’l sì suona»; ai genovesi, «uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna», domanda «perché non siete voi del mondo spersi?», e, attraverso la voce di Guido, signore del Montefeltro, condanna i tirannelli che dominano sulla Romagna.

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Contro papi e imperatori

Dai severi giudizi politici di Dante non si salvano nemmeno le più alte istituzioni. Il poeta considera l’imperatore il rappresentante dell’unico potere in grado di assicurare la giustizia nel mondo, frenando la tendenza degli uomini a trasformarsi in bestie dominate dall’ingordigia. Ma gli auspici del sommo poeta sono stati disattesi, ed egli manifesta la propria amarezza: in particolare, censura gli imperatori che si sono preoccupati solo dei territori tedeschi, lasciando l’Italia nelle mani dei loro figli incapaci. Come ha fatto Alberto I d’Austria, hanno abbandonato la guida dell’Impero, rendendolo ingovernabile: «O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia […] Vieni a veder la gente quanto s’ama! e se nulla di noi pietà ti move, a vergognar ti vien de la tua fama». Questo stato di cose è, secondo Dante, segno del fatto che l’amore ha abbandonato l’Italia e il mondo, quasi che Dio si sia dimenticato degli uomini: «E se licito m’è, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove».

Questo disegno, comparso in un’edizione del 1506 della Commedia, mostra i gironi dell’Inferno che terminano in un burrone e nel Cocito, ultimo dei fiumi infernali, nel nono cerchio

Questo disegno, comparso in un’edizione del 1506 della Commedia, mostra i gironi dell’Inferno che terminano in un burrone e nel Cocito, ultimo dei fiumi infernali, nel nono cerchio

Foto: Dagli Orti / Scala, Firenze

   

La sua disillusione verso l’impero non gli fa dimenticare la depravazione morale e la corruzione in cui è caduta la Chiesa, verso la quale lancia un’invettiva nel canto XIX dell’Inferno. Qui incontra Niccolò III: il papa, con i piedi lambiti dal fuoco, espia la sua sete di potere in terra e preannuncia l’arrivo, nel girone in cui sono puniti i simoniaci, di Bonifacio VIII e di Clemente V, che come lui si sono arricchiti con il commercio delle indulgenze.

Nulla si salva dallo sguardo senza speranza che il poeta esiliato ha sulla sua epoca. Amareggiato per l’impossibilità di tornare in patria – nel 1315 viene nuovamente condannato a morte in contumacia dopo aver rifiutato le umilianti condizioni che le autorità cittadine gli hanno imposto per tornare, fra queste riconoscere la sua colpa e pagare una sostanziosa ammenda –, Dante si sfoga condannando i suoi contemporanei, nelle pagine della sua opera immortale, per aver abbracciato i nuovi “valori” dell’ambizione, la lotta feroce per il potere e il denaro.

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