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L'educazione dei figli nell'antica Grecia

Nei loro primi anni di vita i bambini erano affidati alle cure delle donne di casa; intorno ai sei anni iniziava l’istruzione


Nell’antichità i Greci si preoccupavano dei bambini dal momento in cui la futura madre sapeva o sospettava di essere incinta. Affinché il parto non incontrasse difficoltà, Platone raccomandava alle gestanti di fare esercizi fisici, mentre Aristotele le incoraggiava ad alimentarsi in modo adeguato. Arrivato il momento della nascita, il costume greco dettava che solamente altre donne assistessero la partoriente.

Una madre con il figlio in braccio. Scena mitologica rappresentata su un vaso del IV secolo a.C. da Apollonia in Illiria

Una madre con il figlio in braccio. Scena mitologica rappresentata su un vaso del IV secolo a.C. da Apollonia in Illiria

Foto: Dea / Scala, Firenze

In una commedia di Aristofane intitolata Le donne al parlamento, la protagonista, Prassagora, giustifica al marito la sua assenza in una determinata occasione affermando che stava aiutando un’amica durante il parto. Era raro che un uomo – anche il marito – fosse presente in questo momento. Per quanto riguarda il luogo del parto, il più adatto era il gineceo, la zona della casa riservata alle donne (nel quale vivevano sostanzialmente da recluse), poiché era di solito la più protetta e garantiva quindi l’intimità essenziale in una tale occasione.

A distanza di alcuni giorni dal parto si celebravano le Anfidromie, feste familiari in cui le levatrici giravano attorno al focolare tenendo il bambino in braccio e presentandolo agli dei della casa e alla famiglia, e poi lo affidavano al padre perché gli impartisse il nome, che in genere era lo stesso portato dal nonno. Le famiglie più ricche organizzavano alcuni giorni dopo una celebrazione più solenne, che includeva un banchetto e offerte sacrificali.



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Più tardi ancora, ad Atene e nelle comunità ioniche, aveva luogo la presentazione in società del neonato in occasione della festività delle Apaturie, che si celebrava ogni anno in ottobre o novembre. Tutti i cittadini maschi si riunivano in un gruppo parentelare chiamato fratría e, durante la terza giornata delle Apaturie, i maschi nati durante l’ultimo anno venivano registrati ufficialmente in presenza dei membri della fratría. Non si sa con certezza se anche le bambine fossero registrate allo stesso modo.

L’ideale del figlio unico

Nella tradizionale società greca aveva più valore un figlio che una figlia; il maschio era maggiormente considerato poiché si pensava che avrebbe potuto aiutare l’economia familiare in modo più incisivo rispetto a una femmina. Allo stesso modo, nel mondo greco erano particolarmente apprezzati – poiché venivano considerati un dono divino – i figli unici, i primogeniti o quelli nati da genitori anziani, poiché essi sarebbero stati in questo modo accuditi da un familiare diretto durante gli anni della vecchiaia.

Gioco degli astragali o aliossi: ossa di tarso di pecora usate come dadi. Statua del IV secolo a.C.

Gioco degli astragali o aliossi: ossa di tarso di pecora usate come dadi. Statua del IV secolo a.C.

Foto: Age Fotostock

Ad Atene, fino ai sei anni bambini e bambine trascorrevano la maggior parte del tempo nel gineceo, in compagnia delle donne. Platone dedicò una certa attenzione nel descrivere i giochi infantili, poiché pensava che avessero una grande importanza nella formazione della personalità e nello sviluppo del talento individuale. Consigliò, per esempio, che un bambino destinato a diventare contadino o architetto praticasse giochi legati alla sua attività di adulto. Anche Aristotele raccomandava che i bambini che ancora stavano con le donne nel gineceo non ricevessero nessun insegnamento né realizzassero esercizi fisici; invece, sarebbe stato necessario spingerli affinché i loro giochi «imitassero le attività serie della vita futura».

Questa rigida educazione morale non era la regola. I bambini greci si intrattenevano con i tipici giochi infantili, come quello della mosca cieca, che i greci chiamavano “la mosca di bronzo”. In esso, un bambino con gli occhi bendati doveva catturare uno dei suoi compagni mentre diceva: «Andrò a caccia della mosca di bronzo». Gli amichetti lo circondavano e gli davano dei colpi gridando: «La cercherai ma non la prenderai».

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L’autorità del padre

Le madri sviluppavano un rapporto molto stretto con i figli, poiché erano loro a giustificarne il ruolo nella comunità familiare. Questo non significa che fossero iperprotettive. Nel caso di Sparta, le madri spingevano i figli affinché adempissero ai loro doveri militari fino alla morte: «[torna] con esso o su di esso», dicevano consegnando loro lo scudo prima di partire per una battaglia. Al contrario, la relazione con il padre era meno stretta. Non è casuale che questo chiamasse il figlio pais (“ragazzo”), lo stesso termine che veniva utilizzato per gli schiavi, riflesso dell’autorità assoluta che un padre di famiglia esercitava sul suo erede; le donne, al contrario, chiamavano i figli teknon (“creatura”). Nel corso del tempo, la disciplina paterna si fece assai meno rigorosa. Per esempio, verso il 420 a.C., nella commedia Le nuvole, di Aristofane, si presenta un anziano chiamato Strepsiade che si lamenta del fatto che sua moglie lo sta rovinando per permettere al figlio di acquistare cavalli molto costosi.

Anziana nutrice in una statuetta di Tanagra. I secolo d.C. Museo del Louvre, Parigi

Anziana nutrice in una statuetta di Tanagra. I secolo d.C. Museo del Louvre, Parigi

Foto: White Images / Scala, Firenze

Inoltre, a partire dai sei o sette anni, i bambini iniziavano ad andare a scuola e passavano allora sotto l’autorità di un tutore o pedagogo, sebbene ci fossero scrittori, come Senofonte e Plutarco, che consigliavano di ricorrere a questi educatori al più presto, non appena finito l’allattamento, affinché il piccolo imparasse il linguaggio.

Il pedagogo accompagnava il bambino a scuola, ma spesso contribuiva anche alla formazione del piccolo. Plutarco descrisse le caratteristiche del pedagogo ideale: serio, degno di fiducia, di cittadinanza greca e privo di difetti fisici, poiché, affermava, «chi va con lo zoppo impara a zoppicare».

Bambini divinizzati

È significativo il ruolo che i bambini ebbero nella religione greca, senza dubbio perché simboleggiavano la purezza, un valore essenziale per poter entrare al servizio di un tempio. I cori di voci bianche furono un elemento fondamentale nelle celebrazioni religiose; dieci cori di cinquanta bambini ognuno competevano negli agoni di cori ditirambici in occasione della celebrazione ateniese delle Grandi Dionisie. In alcuni riti i bambini arrivarono a servire come officianti; sappiamo che tanto a Patrasso quanto a Egira la sacerdotessa di Artemide doveva essere una fanciulla non ancora in età da marito, e che a Egio, in Peloponneso, il sacerdote di Zeus veniva eletto, in origine, fra i bambini che avevano vinto un concorso di bellezza.

Oltre che essere contraddistinto da purezza e bellezza, il bambino aveva un’altra caratteristica importante nel rituale religioso greco: non era contaminato dalla vicinanza con la morte. Perciò, i bambini che tagliavano i rami degli ulivi sacri con cui si intrecciavano le corone dei vincitori olimpici erano gli amphithaleis, ovvero coloro i cui padri non erano morti e godevano, pertanto, del favore divino.



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Alcuni bambini morti in tenera età furono venerati come eroi e considerati intermediari fra gli dei e i mortali. Venivano loro attribuiti grandi poteri, forse perché, essendo morti prematuramente, si riteneva nutrissero una volontà di vendetta, come dimostra il fatto che fossero invocati nelle formule di esecrazione, attraverso le quali si chiedeva che i nemici fossero colpiti. Pausania narra la storia di Sosipoli, un eroe-neonato che aiutò gli Eleati quando vennero attaccati dagli Arcadi, poiché sua madre, mossa dalle visioni che aveva avuto in sogno, lo consegnò ai generali eleati affinché lo esponessero alla testa dell’armata. Quando gli arcadi attaccarono, Sosipoli si trasformò in serpente e li mise in fuga.

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