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Malevic e la dimensione estetico-filosofica dell’icona

Non è un libro sulla pittura di Malevic l’ultimo nato dalla penna di Massimo Carboni. Non è neppure un libro sulla pittura e non è neanche un libro di filosofia. È, invece, un testo sul pensiero e sul vizio tutto umano di misurare la sua limitata mente, con l’infinito precipizio di quella dimensione abissale, insondabile e inarrivabile che è l’eterno.

Quando si aprono le prime pagine, a differenza di quel che ci si potrebbe aspettare, non ci troveremo dinanzi alla dotta dissertazione su quel che rappresenta nel XX secolo il fenomeno del Suprematismo e quale ruolo vi abbia ricoperto Casimir Severinovič Malevic, esponente di spicco di quel movimento artistico, oltre a quello di Rozanova, di El Lissitzky e la relazione con Moholy-Nagy e il Bauhaus.

L’inizio della lettura ci spalanca davanti agli occhi il rovello degli uomini del VII e dell’VIII secolo che, a Bisanzio, non sapevano se fosse giusto, possibile e corretto, teologicamente parlando, rappresentare le immagini della Vergine, del Cristo e degli Angeli; oppure se non fosse giusto affidarsi a immagini astratte o, come si dice con termine più tecnico, aniconiche. Fu quello un momento traumatico della storia del mondo cristiano, con scontri veri e propri fra iconoclasti e iconoduli, con la perdita di capolavori che furono rimossi o scialbati e con la contrapposizione di due mentalità che, in sostanza si chiedevano: è possibile rappresentare il divino in immagine?

Una prima risposta positiva venne dal Concilio Niceno II del 787, quando l’imperatrice Irene e papa Adriano I, riuniti tutti i vescovi dell’impero, affermò che se Cristo era l’icona di Dio, allora, si poteva rappresentarlo in immagine, come tramite fra l’effigie e il suo originale. Spiega, infatti, Carboni: «Gli iconoclasti pretendevano di poter sostare nella pura trascendenza; gli iconoduli capiscono che è necessario transitare per l’icona; nella quale si contempla al tempo stesso l’indicibile e il rappresentato: non l’uno o l'altro, ma l’uno nell’altro».

Il problema, allora, era quello di costringere l’infinito in un’immagine, ma non si trattò di un tema accantonato con i secoli a venire. Al di là del ripristino del culto delle figure dei santi, del Cristo e della Vergine, a Bisanzio, come a Roma (nonostante il fraintendimento di Carlo Magno), sancito nell’843 dall’editto dell’imperatrice Teodora, i teologi cristiani continuarono a rimanere abbacinati dal problema. Il filo rosso tracciato da Carboni passa per uno dei colossi del pensiero teologico che risponde al nome di Nicola Cusano, mirabile equilibrio fra scolastica e Neoplatonismo, che sfocia nella geometria del divino.

È il De visione Dei che segna il passaggio al pensiero moderno del tema, quando, scrivendo del volto di Cristo, il cardinale tedesco afferma: «bisognerebbe andare oltre le forme di tutti i volti formidabili, oltre tutte le figure in tutti i volti appare il volto dei volti in modo velato ed enigmatico. Ove mi imbatto nella impossibilità, oltre la ragione e quanto più oscura e impossibile è riconosciuta una tale impossibilità tenebrosa, con tanta maggiore verità la sua necessità risplende».

Allora, vengono in mente le parole di Kafka, citate da Carboni, che scrive: «con ogni boccone visibile si riceve anche un boccone invisibile, con ogni veste visibile, anche una veste invisibile». Conclude l’autore: «Tutto questo Malevic lo sa. Lo sa da pittore e da pensatore. Sa perfettamente di dover inventare lo stato estetico dell’inoggettività. Di nuovo: sa perfettamente, al pari dell’artista zen, che non può evocare il nulla semplicemente nulla dipingendo. Tutte le opere suprematiste lo testimoniano. Il Quadrato, il Cerchio, la Croce. Forme regolari, geometriche, primarie, noetiche. Forme mentali certo. E tuttavia dipinte, raffigurate: incarnate». È allora questa la sfida della pittura: mostrare l’assoluto nel contingente. Malevic ci è riuscito.

Malevic. L’ultima icona. Arte, filosofia, teologia. Ediz. illustrata,
di Massimo Carboni, 251 pp., ill., Jaca Book, Milano 2019, € 50,00

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