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L’arte racconta la vecchiaia e la malattia. Vecchio, ti chiameranno vecchio.

Autore: Giuseppe Nifosì  Pubblicato in Arte, letteratura, canzone

https://www.artesvelata.it/arte-vecchiaia-malattia/

La vecchiaia: una stagione difficile della vita. Gli artisti sono stati generalmente restii a rappresentarla, preferendo piuttosto celebrare i fasti e decantare la bellezza della gioventù. Nel corso dei secoli, tuttavia, alcuni pittori e scultori hanno scelto di soffermarsi sull’età più tarda dell’uomo, certo evidenziandone la tristezza. Anche molti autori di canzoni hanno fornito un contributo importante al racconto della vecchiaia, spesso con accenti di sincera poesia.

Nel 1991 il cantautore Renato Zero (1950) decise di partecipare al Festival di Sanremo portando una canzone di Mariella Nava (1960), anche lei cantautrice e sua grande amica. Spalle al muro, questo il brano, affronta il tema della vecchiaia con un testo incisivo e a tratti duro. Zero, al Festival, si presentò con un castigatissimo abito totalmente nero, abbandonando i vistosi costumi, i lustrini e il trucco degli anni precedenti, e si distinse per una interpretazione intensa e teatrale. Il pubblico dell’Ariston, solitamente molto compassato, gli tributò un applauso talmente lungo da obbligare i presentatori (Andrea Occhipinti ed Edwige Fenech) a richiamarlo sul palco dopo la sua esibizione. Si classificò secondo, dietro Riccardo Cocciante.

Ritrovarsi soli

Spalle al muro
Quando gli anni son fucili contro
Qualche piega sulla pelle tua
I pensieri tolgono
Il posto alle parole
Sguardi bassi alla paura
Di ritrovarsi soli.

Sebbene la vecchiaia e la malattia facciano parte della vita, non sempre l’arte ha voluto raccontare ogni aspetto della vita. L’arte antica, con qualche felice eccezione in età ellenistica, è rifuggita con orrore dalla raffigurazione del corpo marchiato dall’infierire del tempo. Nelle opere medievali, la Madonna, anche anziana, è sempre nobilissima nell’aspetto e nella posa; il corpo di Cristo, spesso macilento, talvolta martoriato dalle ferite, trova una giustificazione teologica; ma la normalità della vecchiaia e della malattia, che interessa ogni persona, non trova molto spazio nella rappresentazione artistica. Da questo punto di vista, lo scultore Donatello (1386-1466) è stato un artista di straordinaria sensibilità e ammirevole coraggio. Giudicata nel contesto culturale del Rinascimento italiano, così attento alla celebrazione della bellezza, la sua Maddalena, sfigurata dalle privazioni e dagli anni trascorsi nella povertà più assoluta, appare quasi come un miracolo artistico, un capolavoro universale che si può ammirare e giudicare trascendendo e prescindendo da qualunque ambito storico.


Donatello, Maddalena, 1455 ca. Legno policromo. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

La santa, anziana, ascetica e deturpata dai lunghi digiuni, è quasi una trasfigurazione fisica del dolore: il suo corpo, del quale a tratti s’indovina l’antica bellezza, è come consunto, bruciato da un ardore inestinguibile; le sue gambe magrissime sbucano dalla veste lacera e strappata che si confonde con i capelli incolti, i suoi piedi aderiscono al suolo come fossero le radici di un albero.

Il suo volto appare mummificato, gli occhi sono infossati nelle orbite, lo sguardo è fisso e attonito, la bocca, parzialmente sdentata, è socchiusa a mormorare parole di preghiera, mentre le lunghe mani ossute, quasi prive di forze fisiche, si congiungono sfiorandosi appena, come se la donna fosse colta nell’atto di iniziare una supplica.


Donatello, Maddalena, 1455 ca. Particolare.

Il corpo di questa povera vecchia non è solo disseccato dalle privazioni e dall’astinenza, non è solo oggetto della trasformazione e della devastazione compiute dal tempo. Esso è prima di tutto altissima espressione di una dignità morale, che la donna emana nonostante la sua misera condizione. La desolante bruttezza della Maddalena attrae invece di respingere, a sottolineare quanto l’umanità fosse il campo di indagine privilegiato dell’arte donatelliana. Un’umanità eroica proprio in quanto sofferente, dunque cristianamente capace di riscattarsi.

Leggi anche:  Prostitute e “allegre donnine” nella pittura dell’Ottocento

La nostra cultura visiva contemporanea, certamente molto sensibile al dolore che accompagna la vecchiaia e la malattia, non può che giudicare questa prova donatelliana come ancora attualissima. E può farlo in quanto educata, dopo un secolo di avanguardie e sperimentazioni, ad accettare che l’arte può mostrare anche gli aspetti meno edificanti, ma ineluttabili, della vita.


Donatello, Maddalena, 1455 ca., particolare del volto dopo il recente restauro.

Disperatamente al margine

E la curva dei tuoi giorni
Non è più in salita
Scendi piano dai ricordi in giù
Lasceranno che i tuoi passi
Sembrino più lenti
Disperatamente al margine
Di tutte le correnti…

Il grande pittore veneto Giorgione (1478-1510) è conosciuto per le sue meravigliose opere sacre e mitologiche ma fu anche eccezionale ritrattista. Ritratti e allegorie costituiscono la parte meno conosciuta della sua produzione, eppure sono capolavori incomparabili, per finezza di esecuzione e sensibilissima capacità di introspezione psicologica. La vecchia, da lui dipinta nel 1508, è una donna anziana, una popolana o una contadina, la quale emerge da un fondo scuro e indefinito, volgendo lo sguardo all’osservatore. Il significato del dipinto è chiarito dal foglietto che la donna tiene nella mano destra, portata al petto, dove possiamo distintamente leggere “col tempo”. L’immagine della vecchia è stata dunque utilizzata con funzione allegorica, va interpretata come Vanitas (‘Vanità’) o Memento mori (‘Ricordati che devi morire’), una esortazione a non dimenticare che il tempo passa implacabile e tutto consuma. La bellezza umana è transitoria, è destinata a sfiorire, ogni forma di vanità è pertanto inutile. L’opera ha tuttavia l’impostazione di un ritratto: la vecchia è una figura di donna anziana concreta e realissima, che sembra sul punto di raccontare della sua vita, di un lavoro che l’ha consumata, delle privazioni, delle speranze vanificate, dei progetti falliti, delle persone perdute.


Giorgione, La vecchia, 1508. Olio su tela, 68 x 59 cm. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Diranno che sei vecchio

Vecchio,
Diranno che sei vecchio
Con tutta quella forza che c’è in te.
Vecchio,
Quando non è finita
Hai ancora tanta vita
E l’anima la grida
E tu lo sai che c’è.

Nel corso della sua carriera, il grande pittore olandese Rembrandt van Rijn (1606-1669), giustamente considerato come uno dei massimi pittori della storia dell’arte europea, dipinse anche un numero impressionante di autoritratti: ne conosciamo circa un’ottantina, fra dipinti, disegni, incisioni. In tutta la storia dell’arte, nessun altro grande artista si è raffigurato tanto spesso. «Rembrandt non annotò le sue impressioni come Leonardo o Dürer», scrive lo storico dell’arte Ernst Gombrich, «non fu un genio ammirato come Michelangelo, i cui detti sono stati tramandati ai posteri, e nemmeno fu un diplomatico ed epistolografo come Rubens, in corrispondenza con i più eminenti dotti del tempo. Eppure, sentiamo di conoscere Rembrandt più intimamente degli altri grandi maestri poiché egli ci ha lasciato una mirabile testimonianza della sua vita»: cioè gli autoritratti, attraverso i quali volle comporre la sua incomparabile autobiografia. Le opere della maturità, che ce lo mostrano vecchio e stanco, segnato dalle rughe e dalla vita, ci raccontano delle sue sventure personali: la morte della prima moglie, della seconda moglie e di tre dei suoi quattro figli, la sfortuna professionale, i debiti che lo portarono al fallimento e gli costarono la confisca di tutti i suoi beni. Queste vicende lo condussero a ricercare una profonda intensità emotiva ed una straordinaria interiorizzazione della realtà. Quel vecchio che ci guarda dolente non è più il grande pittore destinato alla fama, ma un uomo anziano a cui viene voglia di tenere la mano.

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Rembrandt van Rijn, Autoritratto, 1669. Olio su tela, 63,5 x 57,8 cm. L’Aja, Mauritshuis.

Tempo non ce n’è più

Ma sei vecchio,
Ti chiameranno vecchio
E tutta la tua rabbia viene su
Vecchio, sì, con quello che hai da dire
Ma vali quattro lire
Dovresti già morire
Tempo non ce n’è più
Non te ne danno più…

Quando Vincent van Gogh (1853-1890) dipinse Sulla soglia dell’eternità (Vecchio che soffre), si trovava ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy. Era un uomo solo e disperato e, benché ancora giovane, sentiva probabilmente il percorso della sua vita terrena prossimo alla conclusione. Egli si sentiva, appunto, sulla soglia dell’eternità. Giovane eppure già vecchio, perché dalla vita consumato precocemente. In effetti, ma questo non poteva ancora saperlo, sarebbe morto appena due mesi dopo, per uno sciagurato colpo di pistola. Questa sorta di ideale autoritratto non è un dipinto estemporaneo, perché Vincent aveva già lavorato a tale soggetto, ritraendo un anno prima, all’interno di un ospizio, il veterano di guerra Adrianus Jacobus Zuyderland: un uomo che aveva già combattuto, e non solo metaforicamente, le sue battaglie e che al pittore apparve sconfitto e disilluso. Seduto su una sedia, ripiegato su sé stesso, con i pugni sul viso e probabilmente piangente, chiuso a un mondo percepito come ostile, il vecchio sembra preda di una depressione che lo sta annientando come persona. Come stava capitando all’artista medesimo. I colori del dipinto, inusualmente opachi, trasmettono un senso di tristezza dolorosa. È tanto autobiografico, insomma, questo quadro: eppure, quanti vecchi, rimasti soli, perché vedovi o malati, con i figli adulti e lontani, potrebbero riconoscersi in quella figura.


Vincent van Gogh, Sulla soglia dell’eternità (Vecchio che soffre), 1890. Olio su tela, 80×64 cm. Otterlo, Kröller-Müller Museum.

Inesorabilmente più appannato

Ogni male fa più male
Tu risparmia fiato
Prendi presto
Tutto quel che puoi
E faranno in modo
Che il tuo viso sembri stanco
Inesorabilmente più appannato
Per ogni pelo bianco…

Angelo Morbelli (1854-1919), celebrato esponente del Divisionismo italiano, amò dipingere il dolore dei vecchi abbandonati. Dedicò una serie di dipinti agli ospiti del Pio Albergo Trivulzio, un istituto ospedaliero per anziani di Milano. In una grande sala con tavoloni e panche, pochi uomini lasciati soli con sé stessi sono assopiti o hanno lo sguardo perso nel vuoto. Gli arredi spogli, mostrati di sbieco, ci parlano della vana attesa di una visita, di un gesto, di una presenza. Anche i titoli scelti per questi dipinti, come Giorno di festa oppure Un Natale, accentuano il senso di lacerante desolazione delle scene ed esaltano, con valenza simbolica ed emozionale, il tema della solitudine legato alla vecchiaia.


Angelo Morbelli, Un Natale al Pio Albergo Trivulzio, 1909. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna.

Non devi far rumore

Vecchio
Mentre ti scoppia il cuore
Non devi far rumore
Anche se hai tanto amore
Da dare a chi vuoi tu…

La pittura del Novecento ha spesso privilegiato la raffigurazione di uomini e donne che mostrano senza veli la loro debolezza, la loro fragilità. È il caso di una intensa e dolente madre contemporanea, quella di Gianfranco Ferroni (1927-2001), pittore italiano figurativo legato, negli anni Cinquanta, ai pittori del cosiddetto realismo esistenziale, e divenuto esponente di punta della Nuova Figurazione europea, un filone artistico che ebbe in Francis Bacon e Alberto Giacometti due insuperati capiscuola. In questa fase della sua carriera, attraverso immagini intensamente espressioniste, Ferroni riversò sulla tela ansie, preoccupazioni, angosce personali. Mia madre è un quadro del 1958, dipinto una decina d’anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, mentre l’Italia, l’Europa e il mondo stavano ancora facendo i conti con gli esiti e le conseguenze della barbarie. Non erano anni di certezze; i rifugi rassicuranti, anche quelli dell’anima, soprattutto quelli dell’anima, erano stati tutti violati. La disillusione aveva sostituito la paura. La vecchia madre di Ferroni, che noi percepiamo malata, forse di demenza senile, incarna dolorosamente questa condizione dell’esistenza, che è propria dell’artista ma così diffusa da diventare collettiva. Ella ha il volto smagrito, scavato, allungato, appena illuminato da bave sinistre di luce. Sembra un fantasma, anzi il fantasma stesso dell’umanità, risucchiato dal buio dell’abisso alle sue spalle. Eppure, questa madre, probabilmente dimentica di sé stessa e degli altri, smarrita nel vuoto del non-ricordo, suscita tenerezza, proprio perché in fondo è una madre vera, che, dopo aver tanto protetto e accudito, ora necessita di accudimento e protezione. «Anche i momenti più “arrabbiati” della mia pittura – ricorda l’artista – rivelano una componente autobiografica di malinconia e di pietà verso l’uomo, di religiosità cosmica che nasce dal senso del mi stero dell’esistenza». La madre di Ferroni, infatti, non è solo simbolo universale. Ella riesce, con triste concretezza, a farsi immagine ineluttabile di vecchiaia e malattia, a causa delle quali le madri reali (sospese con lo sguardo dolente, un tempo vivo e attento, sul precipizio della morte) progressivamente sbiadiscono, fino a svanire.

Leggi anche:  Guido Reni: Ritratto della madre

Gianfranco Ferroni, Mia madre, 1958. olio su tela, 120 x 60 cm. Monza, Galleria Montrasio Arte.

E sei tagliato fuori

Ma sei vecchio,
T’insulteranno vecchio
Con tutta quella smania che sai tu…
Vecchio sì
E sei tagliato fuori
Tu e le tue convinzioni
Le nuove son migliori
Le tue non vanno più
Ragione non hai più…

Oltre alle arti figurative, anche il cinema e la fotografia hanno mostrato e mostrano un’attenzione specifica nei confronti di questi temi. Emblematico, in tal senso, è il reportage realizzato dal fotografo free lance contemporaneo Fausto Podavini (1973), intitolato MiRelLa, che gli è valso, nel 2013, il primo premio nella sezione Daily Life Stories del prestigioso World Press Photo e il Sony Awards. Podavini, romano, ha lavorato in Italia, in Africa, in Sud America e in India, realizzando importanti lavori a sfondo sociale sullo sport per disabili, sul lavoro all’interno delle carceri minorili e degli ospedali missionari, sulla malattia. MiRelLa, realizzato in Italia, rigorosamente in bianco e nero, mostra la vita quotidiana di un malato di Alzheimer, Luigi, amorevolmente assistito da sua moglie: Mirella, appunto.


Fausto Podavini, MiRelLa, 2006-11. Fotografia.

Podavini ha lavorato a questo reportage per oltre quattro anni, fino alla morte di Luigi, nel 2011. Il compito di un fotografo, spiega l’artista, è «raccontare storie, andando a scoprire quelle più nascoste; viverle in prima persona e provare a restituire un’emozione […]. Mirella è un lavoro sull’Alzheimer ma non solo, perché non racconta la sola malattia ma […] la speranza e la rassegnazione, la morte e la vita e soprattutto la dedizione e l’amore di una donna che ha assistito per ben sei anni suo marito […]. È iniziato come un lavoro sulla malattia, è diventato molto di più».


Fausto Podavini, MiRelLa, 2006-11. Fotografia.

Le immagini di Podavini, intense e dolenti, sono drammaticamente e impietosamente portatrici di verità ma nel contempo ci appaiono intrise di commovente tenerezza. Oggetti, segni, gesti raccontano una quotidianità in cui la malattia ha, apparentemente, svuotato la vita di questi due anziani coniugi, cancellando ogni ricordo nella mente del marito. Eppure, l’amore accudente e disperatamente tenace di lei è capace di ricolmare tutto. Il cuore, a volte, è capace di amare per due.


Fausto Podavini, MiRelLa, 2006-11. Fotografia.


Fausto Podavini, MiRelLa, 2006-11. Fotografia.

Vecchio sì
Col tanto che faresti…
Adesso che potresti
Non cedi perché esisti
Perché respiri
Tu…


Renato Zero al Festival di Sanremo del 1991.

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