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Autore: Giuseppe Nifosì  Pubblicato in Il Novecento: dagli anni Settanta ad oggi, Il Novecento: gli anni Cinquanta e Sessanta 

Esiste, nel flusso dell’arte contemporanea, ossia quella a noi più prossima, un filone intensamente introspettivo e spiritualista, che ha voluto e saputo dare forma (anzi forme) alla disarmante percezione della nostra fragilità, alla precarietà della nostra vita, all’ineluttabile consapevolezza di una morte che incombe. Questo pessimismo, così profondamente esistenzialista, è tuttavia contrastato da un tenace desiderio di grandezza e da un’aspirazione pervicace, per quanto irrazionale, all’eternità.

Alcuni artisti contemporanei, attraverso forme espressive e simboliche del tutto nuove, hanno fissato coraggiosamente i loro occhi sul buio che un inedito e drammatico vuoto di senso ha provocato. Scrutando questo buio, però, alcuni di loro hanno anche cercato, talvolta intravisto o magari solo agognato una luce vivifica, che non è certo, né può essere, una risposta definitiva alle loro inquietudini e domande e meno che mai una certezza metafisica. La luce che si oppone al buio, nell’arte di questi protagonisti, è, il più delle volte, solo l’espressione di una speranza salvifica, che è legittimo, se non doveroso, alimentare, in una tensione spirituale e creativa che resta, in ogni caso, davvero potente.


Jackson Pollock al lavoro.

Jackson Pollock

Jackson Pollock (1912-1956) ha voluto fare dell’opera d’arte la traduzione diretta di un’energia fisica, emotiva e mentale, lo specchio di un’azione tesa a imprimere una traccia dell’artista nel mondo. Una volta che rimproverarono a Pollock di dipingere ispirandosi troppo poco alla natura, egli rispose: «Io sono la natura». L’artista non voleva riprodurre ciò che si può vedere con gli occhi, nel mondo, non intendeva operare sulla natura ma agire con la natura. «Mi occupo dei ritmi naturali – disse – lavoro dall’interno all’esterno, come la natura». Dall’interno all’esterno. Ecco la chiave di lettura.


Jackson Pollock, Convergence (Convergenza), 1952. Olio su tela, 2,37 x 3,93 m. Buffalo (New York), Albright-Knox Art Gallery.

Leggi anche:  Pollock: i grovigli dell’anima

L’artista ha riversato sulla tela tutta la propria interiorità, rendendola manifesta, ha dato forma alle sue emozioni, ha espresso con straordinaria efficacia la sua ansia esistenziale, il suo anelito di libertà totale. Versare il colore sulla tela ha avuto, per lui, il valore, metaforico e concreto a un tempo, di un transfert, di un trasferimento da dentro a fuori, di un travasamento sullo spazio magico della tela del contenuto magmatico e incontrollabile del proprio Es (come avrebbe detto Freud), della propria interiorità più profonda. «Voglio esprimere i miei sentimenti, non illustrarli. La tecnica è semplicemente un mezzo per arrivarci».


Mark Rothko davanti a una delle sue tele.

Mark Rothko

Mark Rothko (1903-1970) produsse tele verticali e di grande formato (tre metri di altezza circa), composte da due, tre o quattro rettangoli colorati, dai contorni fluidi e trasparenti, concatenati l’uno all’altro e sovrapposti. Appare chiaro che Rothko non fu mai un action painter alla maniera di Pollock, con il quale non ebbe, artisticamente, alcunché da condividere, astrattismo a parte. Anzi, per certi versi egli può considerarsi l’anti-Pollock.


Mark Rothko, No. 61 (Rust and Blue) [Brown, Blue, Brown on Blue], 1953. Olio su tela, 2,94 x 2,32 m. Los Angeles, The Museum of Contemporary Art, The Panza Collection.

Leggi anche:  Mark Rothko: aneliti di infinito

I quadri di Rothko sono contemplativi, ideali finestre che si aprono su dimensioni “altre”, intensamente spirituali e misteriose. Rothko sembrò volersi porre di fronte all’estremo silenzio di profondità inesplorate, fatte non di paesaggi sconfinati ma di puri colori, che a volte rimandano a cieli rasserenanti, altre volte sembrano esplodere in bagliori di luce mistica. Un infinito cui ci si può abbandonare.


Lucio Fontana al lavoro.

Lucio Fontana

Anche Lucio Fontana (1899-1968) volle compiere la ricerca di una dimensione trascendente, compiuta. I suoi tagli, così come i buchi, tutti ottenuti lacerando superfici monocrome, bianche in genere ma anche rosse o blu, sono fenditure, diverse per numero, lunghezza e disposizione, da uno a quattro o anche più, talvolta leggermente incurvate e con inclinazioni appena differenti, che slabbrano la superficie compatta del quadro, creando sullo sfondo monocromo delle linee virtuali che non sono dipinte ma che appaiono a causa della lacerazione.


Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1959. Idropittura su tela, 100 x 81 cm. Rovereto, MART – Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (in deposito da collezione privata).

Leggi anche:  Lucio Fontana

Il titolo di queste opere, usato spesso da Fontana, è: Concetto spaziale. Attese. Proprio la parola “attese” indica una pausa, un richiamo temporale, ma allo stesso tempo uno stato d’animo, un sentimento, una condizione esistenziale, una sensazione che accomuna l’artista e lo spettatore, i quali, di fronte a questo schermo spaziale vuoto, privo di contenuti visibili, restano come sospesi, in attesa che un evento ignoto accada, che il mistero si sveli.

La rottura della superficie svela l’esistenza di uno spazio altro, indefinibile, incommensurabile e misterioso, che l’ombra del buco o del taglio lasciano intravedere; ecco che, attraverso il piano bucato o tagliato, lo spazio reale incontra quello immaginario. L’artista chiede al pubblico di ammettere un “al di là” che nell’opera viene richiamato, facendo, di fatto, di ogni suo Concetto spaziale una forma di trascendenza in atto.


Alberto Burri al lavoro.

Alberto Burri

Alberto Burri (1915-1995) polarizzò il suo interesse sulla vitalità espressiva della materia: Sacchi, Ferri, Legni, Plastiche, Cretti. Le opere di Burri sono molto meditate e per certi versi cerebrali ma tuttavia, come poche nell’ambito dell’Informale, riescono a dialogare direttamente con le nostre viscere, tendono a evocare in noi, ben più di una qualunque figurazione, una idea concreta di dolore e di morte.


Alberto Burri, Sacco 5P, 1953. Tecnica mista, sacco, acrilico, vinavil, stoffa su tela, 1,5 x 1,3 m. Città di Castello (Perugia), Fondazione Palazzo Albizzini.

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Le plastiche sottoposte a tortura, ustionate dal fuoco vivo, sembrano raccontare il male, raccontare la guerra con una immediatezza che manca a qualunque riproduzione fedele di un corpo martoriato dalle bombe o dal napalm. Così come i legni bruciati, per altri versi, tendono a richiamare alla mente desolanti paesaggi di città incendiate. Non c’è traccia, nelle opere di Burri, dell’ottimismo costruttivo di Fontana, e nemmeno della sua incessante ricerca di infinito.

Non c’è componente spirituale meno che mai senso del sacro. D’altro canto, alle dichiarazioni di fede di Fontana, Burri oppose un dichiarato ateismo, che non lasciava spazio ad alcuna apertura. Quando gli chiesero cosa sarebbe rimasto della sua pittura, l’artista rispose: «Nulla, rimane solo il dolore».


Edward Hopper davanti alla sua abitazione.

Edward Hopper

Il Novecento è stato un secolo malato, gravato da un malessere oscuro, quello della tristezza e della depressione. Non solo i dipinti di astrattisti come Pollock e Rothko o di informali come Burri ma perfino i quadri dei grandi pittori figurativi sono gravati da un profondo e dolente senso di abbandono, da una cupezza malinconica a tratti soffocante, dall’esplicita espressione della tragedia inevitabile.

Edward Hopper (1882-1967) è stato definito, e in parte giustamente, il pittore della nostalgia e della solitudine. In effetti, i suoi personaggi sono spesso mostrati da soli e in silenzio; quando sono più di uno, difficilmente comunicano fra di loro. Abulici o malinconici, inquieti, sempre e comunque immersi in un silenzio che non rassicura, restano concentrati nella lettura, hanno lo sguardo perso nel vuoto oppure guardano fuori dalla finestra, verso un altrove che non riusciamo a riconoscere.


Edward Hopper, Camera d’albergo, 1931. Olio su tela, 152,4 x 165,7 cm. Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza.

Luoghi di passaggio

E certamente non a caso sono così spesso immaginati in luoghi di passaggio che non sono destinati ad essere frequentati se non per breve tempo: strade, stazioni ferroviarie, treni, distributori di benzina, bar, camere di hotel, teatri o cinema, che suggeriscono, di per sé, un senso di precarietà. Sono persone in transito, in cerca di radici, di stabilità, anche psicologica.

Leggi anche:  Edward Hopper

Nei suoi quadri, luoghi, contesti, oggetti, mobili, vestiti sono riconoscibili e familiari; eppure, tutto appare remoto se non addirittura sconosciuto. Le sue non sono mai banali rappresentazioni, ma ricostruzioni che vanno oltre la semplice esperienza. Il loro senso va cercato e si trova al di là di ciò che esse dichiarano esplicitamente. Quella mostrata da Hopper non è, insomma, la realtà veritiera, ma una sua intima interpretazione. Quando fu interrogato su cosa cercasse nei suoi dipinti, Hopper rispose: «Cerco me».


Francis Bacon nel suo studio.

Francis Bacon

Anche l’arte di Francis Bacon (1909-1992) è improntata al presente, parla di noi uomini contemporanei, affronta temi e argomenti che ci riguardano da vicino. E ciò risulta inquietante, considerando lo stato in cui i suoi disperati personaggi si ritrovano: soli, prigionieri, vincolati, senza via d’uscita, senza scampo e speranza. Il loro stesso aspetto fisico sconcerta: sono dilatati, stirati, lacerati, urlanti, deformi, schiacciati, smembrati, talvolta sfilacciati, come sciolti nell’acido, sempre profondamente tragici, vittime di un’angosciata trasfigurazione formale e psicologica. Umanoidi, più che uomini, eletti a espressione contemporanea del mal di vivere, del degrado fisico e morale, della devastazione interiore: una condizione propria di chi è sull’orlo di un baratro e sta per precipitare.


Francis Bacon, Head VI, 1949. Olio su tela, 93,2 × 76,5 cm. Londra, Hayward Gallery, Arts Council collection.

Leggi anche:  Il Ritratto di Innocenzo X di Bacon

Bacon sostenne che esistono realtà nascoste, interiori, che un pittore (come fosse un veggente) ha, suo malgrado, la facoltà di riconoscere e il dovere di mostrare. Un artista, quando dipinge, deve andare oltre la cortina dell’apparenza, oltre la superficie del visibile, per catturare l’insieme delle sensazioni che il reale suscita in lui. E renderle manifeste. Dire la verità: questo è il suo compito; anche quella più agghiacciante, anche quella che nessuno vorrebbe mai vedere. «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito», fu la sua tragica confessione.


Un ritratto di Marina Abramović.

Marina Abramović

Marina Abramović (1946), in tanti anni di attività, ha affrontato con determinazione ogni tipo di prova fisica e psicologica. È considerata la madre della Body Art. Donna di grande carattere, eccezionalmente determinata, capace di straordinaria concentrazione, serissima nel suo lavoro (e per questo oggi giustamente rispettatissima e celebrata), paladina delle artiste che finalmente non devono più contendere spazi e fama ai colleghi maschi (dopo secoli di ingiusto oscuramento), Marina ha affrontato in tanti anni di carriera temi fondamentali: il dolore, la guerra, la morte, il rapporto con se stessi, la capacità di autodeterminarsi. Ha voluto superare i limiti della paura, del dolore e della fatica, nella ricerca inesausta di una particolare dimensione emotiva e spirituale.


Marina Abramović, The Artist Is Present, 2010. Performance. New York, Museum of Modern Art.

Leggi anche:  Le artiste 14: Marina Abramović

La sua è stata, prima di tutto, arte della relazione, come ha magnificamente testimoniato la sua performance più celebre, The Artist Is Present. Un’arte pensata per far pensare, quindi con marcati caratteri concettuali, ma al contempo capace di emozionare o addirittura sconvolgere. Un’arte effimera che ha saputo lasciare un segno profondo: quindi un’arte davvero eterna. Le performance di Marina vanno oltre la rappresentazione, oltre il racconto, oltre l’evocazione. Sono portatrici di verità in un modo diretto, brutale ed efficace che difficilmente altre forme d’arte potranno eguagliare.


Un ritratto di Félix González-Torres.

Félix González-Torres

L’arte di Félix González-Torres (1957-1996), morto di AIDS a soli 39 anni, è stata ricondotta dalla critica a più di un movimento artistico del secondo Novecento: Neodadaismo, Minimalismo, Concettuale, e questo perché questo artista ha, appunto, lavorato con gli oggetti, realizzando opere minimali che valgono non per se stesse ma per il concetto che esprimono.

Artista sensibile e profondo, apertamente gay, impegnato in cause sociali e politiche, nel corso della sua breve carriera ha affrontato tematiche importanti e, per l’America borghese e puritana degli anni Novanta, anche scandalose: omosessualità, solitudine, emarginazione, AIDS. La principale fonte di ispirazione di González-Torres è stato Ross Laycock, il compagno morto proprio di AIDS nel 1991: «Quando la gente mi chiede chi sia il mio pubblico, rispondo onestamente, senza girarci intorno, Ross. Il mio pubblico era Ross».


Félix González-Torres, Untitled (Portrait of Ross in L.A.), 1991. Installazione con caramelle. New York, metropolitan museum of Art, met Breuer.

Leggi anche:  I poetici ready-made di Félix González-Torres

Lacerato dal dolore, e prima di spegnersi a sua volta, pochi anni dopo, per la medesima malattia, González-Torres ha voluto condividere col pubblico la propria storia, che è al contempo individuale e universale, giacché parla di amore e di paura e riguarda o può riguardare tutti. «L’amore ti dà una ragione di vita – ha detto l’artista in un’intervista – ma è anche un motivo di panico, si ha sempre paura di perdere quell’amore».

Il tema della morte

Félix affronta, con piena consapevolezza, e affidando all’arte una funzione catartica, il tema della morte, non tanto riflettendo sulla propria, futura e inevitabile, ma abbracciando, affettivamente ed emotivamente, l’esperienza dolorosa della perdita di chi si è amato. Egli, dunque, si concentra sui temi del lutto e dell’assenza dell’Altro, la quale porta o può portare a un malinconico smarrimento del senso del mondo. Il vuoto e il nulla, già scrutati con lucido eroismo dai maestri che lo avevano preceduto (da Rothko a Bacon), nelle sue opere si identificano, esplicitamente, nell’evidenza della mancanza di una persona fisica, alla quale, tuttavia, l’arte può porre rimedio, in chiave simbolica o metaforica.


Ron Mueck al lavoro.

Ron Mueck

Il fenomeno dell’Iperrealismo, sorto negli anni Sessanta, ha continuato ad avere fortuna, e ancora ai nostri giorni vi sono pittori e scultori iperrealisti che sbalordiscono per i prodigiosi risultati della loro tecnica. Tra questi, si distingue, per l’intensità e l’originalità del suo lavoro, lo scultore Ron Mueck (1958). Tutte le opere di Mueck, in silicone e fibra di vetro, con capelli veri e vestiti di stoffa, sono di una verosimiglianza sbalorditiva: ogni ruga, ogni imperfezione della pelle è riprodotta con una accuratezza certosina.

Attraverso le sue opere, Mueck racconta la fragilità dell’uomo moderno, che ha varcato la soglia del XXI secolo ma forse non sa ancora dove andare. I suoi personaggi sono sempre mostrati fragili, isolati, vulnerabili e soprattutto immaginati con proporzioni assurde, cioè piccolissimi o giganteschi.


Ron Mueck, Boy, 1999. Fibra di vetro, silicone poliuretano espanso, acrilico, fibra e tessuto, 4,9 x 4,9 x 2,5 m. Aarhus (Danimarca), ARoS Kunstmuseum.

Leggi anche:  Dead Dad di Ron Mueck

Il loro impressionante realismo unito alle dimensioni alterate provoca nello spettatore un senso di stupore e di spiazzamento, misto a imbarazzo e fastidio. Inoltre, i suoi uomini e le sue donne, non di rado mostrati nudi, non sono belli, con le loro smagliature, le vene varicose, le grinze della pelle, le rughe, gli arrossamenti, le occhiaie, i capelli crespi e arruffati. La ricerca della bellezza classica e idealizzata è lontanissima dai suoi intenti. L’arte di Mueck parla solo di verità e di normalità, e non possiamo che accogliere con clemenza quei doppi di noi, ben consapevoli che quei limiti fisici ed emotivi sono, per certi versi, anche nostri.


Damien Hirst davanti al suo Squalo.

Damien Hirst

Nessuna stagione, quanto quella novecentesca, ha così ossessivamente riflettuto sul tema della fragilità umana, della fugacità della vita, dell’incombenza della morte: nemmeno l’età medievale, nemmeno l’età barocca. Negli ultimi anni, pochi hanno affrontato questo argomento così doloroso in modo più diretto, estremo e disturbante di quanto abbia fatto l’artista inglese Damien Hirst (1965). L’arte di Hirst è diretta, esplicita, un vero e proprio pugno nello stomaco.

Invece di creare immagini con la tecnica della pittura, l’artista ha preferito ricorrere a macabre installazioni con autentici animali, vivi e morti, trasformando in ready-made la materia organica, tra le vibranti proteste (e con buona pace) degli animalisti.


Damien Hirst, Madre e figlio (Divisi), 1995, ricostituita nel 2007. Carcasse di mucca e di vitello, vetro, metallo, formaldeide. Londra, Tate Modern.

Leggi anche:  For the love of God di Hirst

Molti considerano installazioni di questo genere davvero schifose, nauseanti e comunque sempre tortuose, inquietanti e complesse. Ma l’obiettivo di Hirst è quello di riflettere sulla fragilità irreparabile di ogni essere vivente, fatto di carne e viscere, e nel contempo di esorcizzare la paura della morte, mostrandola al pubblico come un aspetto ineluttabile della vita stessa.

L’artista contemporaneo è un disturbatore, è un sollecitatore delle nostre coscienze, è colui che punta il dito e ci scuote dal nostro torpore. O almeno ci prova.

I brani di questo articolo sono estrapolati da libro L’Arte Contemporanea in 10 artisti, di Giuseppe Nifosì, edito da Laterza, 2022.

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