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Il Satyricon di Maderna al Conservatorio di Milano

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Conservatorio di Milano, venerdì 3 novembre. Nella Sala Verdi, il grande e blasonato auditorium, oggi alquanto fané, è stata allestita una nuova struttura teatrale rimovibile con tanto di “buca” per l’orchestra.

Un progetto intelligente ed economico che si deve all’artista e architetto Lidia Bagnoli. Un’ottima idea e realizzazione! Mancava uno spazio teatrale al Conservatorio e questa soluzione, per quanto di ripiego, consente iniziative drammaturgico-musicali che non possono mancare in un conservatorio come quello di Milano. Tanto più che, a saperla bene interpretare, la formula del “saggio” offre un potenziale di grande interesse sia per il conservatorio sia per la città. Presentarsi al pubblico come un laboratorio che produce talenti e creatività dovrebbe essere quasi un dovere civico per un’istituzione come quella del conservatorio di Milano. Basti pensare all’Ottocento. Al conservatorio si sono viste le “prime”, che ne so, del Don Bucefalo di Cagnoni (1847) o delle Sorelle d’Italia di Boito e Faccio (1861).

Assaporare la creatività in statu nascendi è un godimento ossigenante (talvolta ansiogeno) e uno stimolo intergenerazionale che andrebbe incentivato il più possibile. Applaudo dunque all’iniziativa che ha portato sulla “scena” della Sala Verdi il Matrimonio segreto messo in scena da Pippo Crivelli (2014) o i Promessi sposi di Ponchielli (2015) e il Satyricon di Maderna che ho visto, appunto, il 3 novembre. Questi ultimi due spettacoli sono stati allestiti da Lidia Bagnoli con la regia di Sonia Grandis.

Nel Satyricon erano molto importanti anche le impudiche coreografie di Simone Magnani. A dirigere un’orchestra e un cast formato in gran parte da allievi di conservatorio (non solo di Milano) era l’esperto e navigato Sandro Gorli. Lo spazio della rappresentazione era contornato da archi pseudo-romani a tutto sesto “tipo EUR” che però sul davanti, per un effetto un po’ escheriano, potevano essere percepiti anche come bibliche tavole della legge. In fondo, al centro, su un piano rialzato, un grande oggetto scenico molto ben costruito: le famose orecchie col fallico coltello dell’apocalittico inferno musicale di Hieronymus Bosch. D’altronde il Satyricon di Petronio è stato un modello di “apocalissi” grottesca ossessivamente presente nella cultura italiana degli anni ’60-’70 del secolo scorso, in ragione sia del suo contenuto (crisi dei valori, decadenza, nomadismo, omosessualità, ecc.), sia della sua struttura (metalinguismo, frammentismo, parodia, plurilinguismo, ecc.).

Tra i casi più emblematici di riscritture/adattamenti da Petronio di quegli anni possono essere citati: Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino (prima ed. 1963), il Fellini-Satyricon (1969), la traduzione libera di Edoardo Sanguineti illustrata da Bruno Cassinari (1969, poi ripresa con modifiche l’anno seguente col titolo di Il giuoco del Satyricon), la Cena di Joe Trimalchio, “madrigale drammatico per voci, coro e strumenti” di Giorgio Gaslini (1970), il Satyricon di Bruno Maderna (1973), appunto, e infine Petrolio di Pier Paolo Pasolini (che, iniziato nel 1972, non era ancora finito quando l’autore fu assassinato nel 1975).

Maderna ha scritto il suo Satyricon in limine mortis, come un collage compulsivo di citazioni. Anzi, si può dire che sia fatto tutto di citazioni e autocitazioni, con un sottinteso tra l’afasico e l’ecolalico. Un epitaffio per la tomba dell’avanguardia: la propria. Una delle citazioni più tragicomiche è l’habanera della Carmen, squisitamente riarrangiata, nella scena tra Eumolpo e Fortunata. Lo stesso vale per il valzer di Musetta che accompagna la celebrazione del famoso monumento funebre di Trimalchio cui seguono i “gladiatori” di Fučik (e qui Maderna strizza l’occhio al grottesco felliniano). Il tutto con una leggerezza da operetta che è la cosa più difficile da rendere musicalmente e teatralmente. Non è da tutti saper uscire di scena in questo modo.

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