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Importante caso politico giudiziario avvenuto nel II sec. a.C., il processo agli Scipioni coinvolse i due fratelli Lucio e Publio Scipione, il vincitore della celeberrima vittoria di Zama. Lo scontro politico che ne scaturì vedeva contrapposte due ali dell’aristocrazia romana, una capeggiata da Catone appoggiata però da alcuni elementi democratici, formata dai grandi latifondisti interessati allo sfruttamento in larga scala del lavoro schiavile, all’ampliamento dei mercati, e al grande commercio, e l’altra guidata dagli Scipioni, sostanzialmente poco interessata alla politica delle conquiste e della trasformazione in province degli Stati sottomessi. Catone, famoso per l’accanimento verso Cartagine, di cui anni più tardi ne vorrà la completa distruzione, intransigente conservatore dei costumi romani mal vedeva gli Scipioni, portatori di un nuovo pensiero e tradizionalmente aperti verso il mondo ellenistico.

Il Processo agli Scipioni, antefatti:

Nel 192 a.C. il sovrano Seleucide Antioco III, provocò a guerra i romani che per tutta risposta inviarono a dirigere le operazioni militari in Grecia il console plebeo Acilio Glabrione, protetto degli Scipioni, a cui vennero affiancati in qualità di legati consolari, i patrizi Lucio Valerio Flacco e Marco Porcio Catone, oltre che Lucio Cornelio, fratello del più famoso “Africano”. Dopo un primo rapido successo alle Termopili, Catone fece ritorno a Roma annunciando la fine della guerra e attribuendosi il merito del rapido successo. Non era così, la guerra nel frattempo continuava e quando nel 191 a.C. il console Glabrione fece ritorno in Italia gli venne giustamente concesso il meritato trionfo. Nel 190 a.C., patrocinati da Scipione l’Africano, vennero eletti i due nuovi consoli: il fratello Lucio Cornelio e l’amico Gaio Lelio. la scarsa considerazione sempre goduta dal primo e la marcata inesperienza militare del secondo rese necessario affidare all’Africano, in teoria soltanto legato del fratello, l’effettiva direzione delle operazioni militari nella prossima campagna di Grecia, lasciando a Lucio Cornelio il comando nominale.

Il Processo agli Scipioni, busto di Scipione l'Africanohttps://romaeredidiunimpero.altervista.org/wp-content/uploads/2017/11/Isis_priest01_pushkin-307x480.jpg 307w" sizes="(max-width: 564px) 100vw, 564px" />Il Processo agli Scipioni, busto di Scipione l’Africano

Sconfitto nella battaglia navale di Myonesos, Antioco III inviò ambasciatori presso gli Scipioni con proposte di pace  offrendo ai Romani estensioni territoriali e il risarcimento di metà delle spese di guerra sostenute. Scipione replicò che Antioco avrebbe dovuto abbandonare tutta la Grecia e i territori anatolici “aldiquà” della catena del Tauro, e risarcire interamente le spese di guerra. Rifiutata la proposta Antioco III preferì continuare le ostilità, ma nettamente sconfitto, questa volta a Magnesia nel 189 a.C., fu costretto a cedere e ad accettare le condizioni imposte dai romani.  Sempre in quello stesso anno si tennero a Roma i comizi per la carica di Censore, uno dei candidati in lizza era l’ex console Acilio Glabrione, amico degli Scipioni, e vero vincitore alle Termopili un paio d’anni prima. Proprio In questa occasione egli fu accusato dai tribuni Publio Sempronio Gracco e Gaio Sempronio Rutilo di essersi appropriato di una parte del bottino di guerra, dal momento che, nel trionfo che egli aveva pubblicamente celebrato, non si erano visti, tra « i molti vasi d’argento » esibiti, certi vasi d’oro e d’argento presi nell’accampamento di Antioco III, come aveva testimoniato Catone vestito della toga bianca di candidato alla censura, né queste ricchezze erano state versate all’erario. I tribuni avevano quindi multato  Glabrione per la somma di 100.000 assi. Nel processo Catone avrebbe sostenuto l’accusa di peculato pronunciando ben quattro orazioni, ma quando Glabrione dichiarò di rinunciare alla candidatura, i tribuni, soddisfatti del risultato ottenuto, ritirarono l’accusa. Esclusi i candidati protetti dagli Scipioni, nemmeno Catone e l’amico Lucio Valerio Flacco furono però eletti alla censura, che andò a Tito Quinzio Flaminino e a Marco Claudio Marcello. 

Il Processo agli Scipioni, processo a Lucio Scipione:

Lucio Cornelio Scipione al termine della guerra contro Antioco III si impossessò di 500 talenti, anticipati dal sovrano Seleucide, per pagare le legioni, tornato a Roma, però, non depositò all’erario il registro delle spese sostenute, così nel 187 a.C. Catone, con l’aiuto dei tribuni Petilio Spurino e Quinto Petilio, chiese a Lucio Scipione di rendere conto di quei 500 talenti. Non si conosce quale sia stata la difesa di Lucio Cornelio, a cui venne opportunamente in aiuto il fratello Publio che sostenne che, pur possedendo il registro delle spese, egli non era obbligato a renderne conto. Tale risposta presuppone che egli considerasse quei 500 talenti come una preda di guerra, per la quale effettivamente non ci sarebbe stato alcun obbligo di rendere conto, e non come parte dei contributi dovuti da Antioco III a seguito del trattato di pace e come tale spettante all’erario statale. Fatto sta che Publio Scipione, non solo portò dinnanzi al Senato il famigerato registro contenente le spese sostenute, ma rifiutandosi di depositarlo, con un sorprendente gesto lo strappò minuziosamente, stizzito, a suo dire,  che si osasse rendere conto di denaro usato per salvare l’Urbe. Nessuno ebbe l’ardire di controbattere, eccetto il solito Catone che dal canto suo sostenne che con questo eclatante gesto, non solo gli Scipioni non intendevano giustificare le proprie spese, ma peggio, avrebbero anche potuto avere qualcosa di illecito da nascondere. Lo scaltro Catone ben sapeva che il Senato, infarcito di partigiani pro Scipione, difficilmente avrebbe potuto dargli soddisfazione, ragion per cui decise di portare la questione al di fuori di esso, rivolgendo la questione ai comizi popolari.  Qui il tribuno Gaio Minucio Augurino accusò Lucio Cornelio di non aver reso conto del denaro di Antioco III, proponendo di condannarlo a una multa ed esigendo l’immediato versamento di una cauzione. Al rifiuto di Lucio Cornelio, il tribuno chiese immediatamente il suo arresto. Intervenne allora, ancora una volta,  Publio Scipione, che chiese che il collegio dei tribuni si pronunciasse contro il violento procedere di Gaio Minucio Augurino. Dei dieci tribuni, otto giudicarono giusto il comportamento del loro collega, ma il nono, Tiberio Sempronio Gracco (padre dei due più famosi tribuni), si oppose sostenendo “che era contrario alla dignità dello Stato che un generale romano fosse condotto nello stesso luogo ove egli fece rinchiudere i capi nemici”, a queste argomentazioni nessuno replicò e l’arresto di Lucio Cornelio fu scongiurato. Non vi sono fonti accertate su come si sia concluso il processo ma è abbastanza certo pensare che Lucio Cornelio abbia infine dovuto risarcire l’erario.

Il Processo agli Scipioni, processo a Publio Scipione:

L’anno successivo nel 186 a.C., per tentare di recuperare la popolarità perduta, Lucio Scipione finanziò dieci giorni di giochi a favore della popolazione romana.  Nel 184 a.C., vennero indette le nuove elezioni censorie, alle quali era data per certa la candidatura dello stesso Lucio, che con quella carica avrebbe potuto coronare la sua carriera politica. Catone e i suoi seguaci intendevano, come sempre, escludere dalla censura gli Scipioni e i loro protetti, e dopo aver attaccato Lucio Cornelio era naturale rivolgersi direttamente contro Scipione l’Africano. Così a pochi mesi dalle elezioni, il tribuno Marco Nevio accusò l’Africano di tradimento e di concussione per aver garantito condizioni di pace favorevoli ad Antioco III, in cambio di denaro e della liberazione del figlio, già prigioniero di Antioco III, che infatti gli era stato restituito senza il pagamento di alcun riscatto. Davanti ai comizi uno sdegnato Publio Scipione si rifiutò di entrare nel merito delle accuse, limitandosi  a ricordare che il valore della sua persona e la gloria delle proprie imprese testimoniavano l’assurdità delle accuse, quindi lasciò subito l’assemblea. Publio Scipione, non solo non si presentò più al processo, ma si ritirò nella sua villa a Literno in Campania, dandola vinta ai suoi accusatori, che vista la sua uscita di scena, si ritennero più che soddisfatti non dando più seguito al processo. La vendetta di Catone si poteva ora realizzare, nelle elezioni censorie di pochi mesi dopo Publio Cornelio Scipione Nasica e Lucio Cornelio non vennero eletti a beneficio dello stesso Catone e di Valerio Flacco, Lucio Quinzio Flaminino  il fratello di Tito, fu cacciato dal Senato, Lucio Scipione fu espulso dall’ordine equestre, mentre all’inflessibile Catone veniva intitolata la prima basilica romana. Publio Scipione morì nella sua villa di Literno nel 183 a.C., tanto amareggiato da non voler essere sepolto a Roma e forse da dettare nell’epigrafe il suo estremo atto d’accusa all’ingratitudine dei suoi concittadini.

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