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cultură şi spiritualitate

Il caffè dei nostri antenati. Da leccornia esotica a drink popolare

04.04.2020 – 07.30 – La quarantena in atto in Austria, speculare all’Italia, permette di mantenere aperti fino alle 15 ristoranti e bar; sono compresi tra quest’ultimi due categorie specifiche: le Konditorei (caffè-pasticcerie) e i Kaffeehauser, i caratteristici caffè viennesi.
Secondo la leggenda, la prima “bottega di caffè” venne aperta a Vienna all’indomani dell’assedio turco del 1683, quando gli austriaci trovarono tra le vettovaglie abbandonate dal nemico molti sacchi di caffè. Mentre Francia e Inghilterra amavano sorseggiare il caffè amaro, quasi fosse una medicina cattiva, l’amore per la vita dei viennesi spinse a mescolarvi latte e zucchero. Nacque così il caffè Mélange, tutt’ora classico caffè viennese. La diffusione delle caffetterie a Vienna presagiva quanto sarebbe avvenuto a Trieste: l’imperatore Leopoldo I concesse nel 1700 il monopolio a 4 caffè, Carlo VI lo estese nel 1714 a 11 (ma in realtà le caffetterie “clandestine” erano 40!) e così via, con una crescita esponenziale.

Il caffè, verso i primi decenni del Settecento, iniziò a essere richiesto dai porto occidentali di Livorno, Marsiglia e Amburgo; dai quali veniva poi smistato nel resto dell’Occidente. La “via Trieste” per questo caffè proveniente dall’Etiopia e dallo Yemen era una delle più importanti; e pagati con “argentei talleri teresiani” il caffè trovò terreno fertile nelle diverse regioni dell’impero.
Durante il XVIII secolo, fino ai primi dell’Ottocento, i carichi di caffè risultavano buoni, ma non eccezionali: 3000 o 6000 sacchi; i piroscafi, in età vittoriana, consentiranno di centuplicare questi carichi. L’imperatrice Maria Teresa involontariamente favorì il caffè tassando, quale moralista cattolica, il consumo degli alcolici (1779).
La prima metà del Settecento assistette in Regione – Trieste, ma non solo – a un consumo di caffè limitato all’aristocrazia. La bevanda comparve tra i libri di cucina dei nobili Strassoldo o tra le spese dei Rabatta di Udine.


Trieste, Piazza Grande (1854)

Trieste mescola in questo periodo l’esperienza veneziana con quella viennese; senza dimenticare l’influsso turco e greco-orientale; il tutto miscelato con le libertà consentite dalla patente di Porto Franco. I primi decenni che seguirono alla concessione di Carlo VI videro Trieste trasformarsi in un luogo di libertà non solo commerciale, quanto giudiziaria. Uno degli articoli della patente proteggeva coloro che avessero accumulato debiti irrisolti in altre regioni dell’Impero, trasformando involontariamente Trieste in un rifugio di debitori e persone dalla dubbia reputazione, ansiose di rifarsi una vita.
Un Far west rococò che venne a cessare solo quando Maria Teresa puntualizzò che la franchigia si applicava ai soli mercanti. In questo contesto i primi caffè triestini erano un luogo di ritrovo, a volte dalla dubbia reputazione. Un osservatore veneziano racconta che a Trieste “vengono molti birbanti e banditi i quali per procassiarsi il vitto studiano di rincalzare le botteghe e le abitazioni non per impiantar casa di commerci, ma errigervi dei giochi di trachs, caffetterie e bargordi” (1752).
Sono però gli stessi anni in cui gli “elvetici“, gli svizzeri protestanti, si recano a Trieste proprio nella qualità di pasticceri, gestendo le prime botteghe di caffè. Tra il 1751 e il 1752 Gaspare Griot aprirà l’omonimo caffè che diventerà anche ristorante per la Locanda Grande.

I caffè di Trieste pertanto anche all’epoca non erano di una sola tipologia: c’erano caffetterie svizzere, caffè all’orientale o alla turca, caffè veneziani e i primi – ancora molto rari – caffè viennesi con i giornali.
Il ruolo per altro si confondeva con quello delle pasticcerie: il caffè Griot serviva dolci, biscotti e sorbetti; oltre a tè, cioccolata, sciroppo, rosolio, vino di Cipro e Malvasia.
La stessa Maria Teresa aveva inizialmente concesso alle caffetterie di vendere “bibite spiritose” (1750).
Passando dal 1752 al 1837, un altro caffè di uno svizzero, Antonio Baldi Bischoff, vendeva acquavite, Rum, Malaga, Madera, Refosco, vino di Cipro e “squisiti vini diversi”. Troviamo però anche l’abbonamento alla Gazzetta di Milano e/o all’Algemeineszeitung per 6 mesi, sull’esempio di Vienna.
D’altronde a Trieste i caffè venivano proposti nelle zone di passeggio o di “liston”; nel 1779 si propose addirittura un caffè sul molo San Carlo (odierno Audace), salvo incontrare il rifiuto del Capitano di Porto, secondi cui sarebbe stato “incomodo alla navigazione”.
Fu invece il Comune a bandire nel 1827 un concorso per una caffetteria nella zona di Sant’Andrea, “luogo di riposo e intrattenimento”.
Il Magistrato Civico d’altronde concedeva a Giovanni Bazzel di aprire una caffetteria presso i Portici di Chiozza “per la circostanza del vicino pubblico passaggio dell’Acquedotto tanto frequentato specialmente nella stagione estiva” (1827).
Come osserva la storica Renata Da Nova, il Magistrato era anche attento all’aspetto igienico-sanitario. Nel 1822 si segnalava ad esempio che i proprietari utilizzavano “cocome di rame non stagnate dove ripongono i fondi di caffè per tutta la notte e ciò può essere nocivo alla salute”. Su 40 caffetterie, 18 risultarono non a norma, con “cocome” e recipienti vari confiscati dalla Polizia.


“Im Café Griensteidl”, quadro di Reinhold Völkel (1896)

È sempre la Renata Da Nova a osservare come cambi radicalmente il consumo di caffè tra i due secoli, tra Settecento e Ottocento, sulla base dei dati degli Orfanotrofi e delle Cooperative operaie. Il caffè inizialmente era una curiosità; una medicina nel Seicento, prima di diventare popolare quale stimolo per l’intelletto tra gli illuministi nel Settecento. Il caffè era allora consumato amarissimo quasi fosse una virgola nelle interminabili conversazioni filosofiche. Durante l’Ottocento il caffè finalmente diventa una bevanda energetica: la povera alimentazione delle classi subalterne, dagli operai, ai garzoni, ai camerieri, trova in questo “drink” un elemento per sopportare i ritmi di lavoro industriali.
Le cooperative operaie triestine, a inizio Novecento, disponevano addirittura di 4 tipologie di caffè: il San Salvador (di prima e seconda scelta), il Santos (di prima scelta) e il surrogato Frank. Dal 1880 al 1900, il consumo di caffè schizza alle stelle: in Austria-Ungheria si passa da un indice 0,50 a uno 1,02 (più del doppio!). Il consumo di caffè in Italia è diffuso sì, ma non altrettanto: da un 0,54 si passa a un 0,55.

Fonti: Renata Da Nova, Diffusione del caffè da genere esotico e di lusso ad elemento dell’alimentazione nel territorio triestino e nel Friuli orientale dal sec. XVIII al 1918, in “Gli archivi per la storia dell’alimentazione“, a cura di Paola Carucci, Atti del convegno (Potenza e Matera, 5-8 settembre 1988), Roma, Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione generale per gli archivi, 1995, pp. 1343-1355.

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