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Il musicista finlandese si è presentato il 14 aprile al Politeama Garibaldi di Palermo nella triplice veste di compositore, pianista e direttore, sul podio dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. In programma anche il suo «Triptyykki»






di Giuseppe Migliore

È un eclettico Olli Mustonen quello che si presenta al pubblico del Teatro Politeama Garibaldi di Palermo venerdì 14 aprile per il 21° appuntamento della Stagione Concertistica dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. Nel triplice ruolo di compositore, pianista e direttore, riesce pienamente a imprimere quell’idea di ricercatezza e vivida espressività non comune. Mustonen compositore riesce a esprimersi con uno stile sempre attento all’equilibrio, ricco di dissonanze e irregolarità ritmiche che però danno sempre un senso di compiutezza e dove le tensioni sonore si risolvono senza mai lasciare nulla in sospeso. Così il suo «Triptyykki» (Trittico) per archi che apre il concerto. Il brano, composto nel 2014 su commissione del fisico uzbeko Sam Steppel in memoria della moglie scomparsa, è caratterizzato nei primi due tempi (MisteriosoFurioso) da un impressionante cambio di ritmica che conferisce alla pagina un crescendo di tensione che si riduce solo nell’ultimo tempo (Ad astra) dove l’intero trittico trova la propria identità in sonorità estatiche. È la sintesi di un estro incontenibile e ove il suono non è sufficiente Mustonen inscena una danza, quella del suo corpo in continuo movimento; una coreografia di ondeggiamenti, salti e movimenti eleganti delle braccia che contraddistinguono la sua direzione appariscente ma mai artefatta. Un ruolo, quello di Mustonen compositore, che è figlio di quella scuola nordica ancora molto legata alla tradizione e dove forti sono gli echi dell’ottocentesca scuola scandinava ma anche slava, ispirata da una natura fredda, cupa e dai colori tenui e sfuggenti dell’aurora boreale. La scelta di aprire il programma con un suo brano non è casuale: l’esperienza compositiva è per lo stesso Mustonen di primaria importanza per l’approfondimento e lo sviluppo degli aspetti interpretativi necessari per accostarsi ai grandi capolavori del passato che vengono smembrati e affrontati in un’ottica più contemporanea. 

Un’ottica personale che esula dalle tradizionali performances e si avverte subito nel Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 19 di Beethoven. Una lettura originale, un tocco rapido, una tecnica impeccabile e un fraseggio personale al limite dell’improvvisazione che però ha il merito di valorizzare una composizione stilisticamente ancora figlia della tradizione settecentesca e che altrimenti avrebbe anonimamente rimpinguato il già folto numero di esecuzioni «tradizionali». Composto nel 1793 questo concerto per pianoforte non porta in sé quello stile beethoveniano maturo ma eredita ancora il fortunato modello mozartiano. Mustonen lo reinterpreta con l’uso parsimonioso del pedale di risonanza e il costante stile staccato, rapidi cambi e contrasti di dinamica che rendono benissimo nel primo tempo (Allegro con brio) ma risultano un po’ forzati nel secondo tempo (Adagio) compromettendone l’aspetto poetico e il pathos. Il Rondò finale è un vero sfoggio di virtuosismo e di gesti. Pochi volti perplessi e tanti apprezzamenti dal pubblico cui è concesso un bachiano bis che riporta alla mente le originali sonorità pianistiche di Glenn Gould. Il concerto si chiude con la Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36 di Čajkovskij, una pagina di grande forza drammatica composta nel 1878 e che apre la Trilogia del destino (assieme alla Quinta e Sesta Sinfonia) in cui il Fato è protagonista. L’orchestra, sempre precisa e in gran forma, appare ben equilibrata nei timbri e la direzione di Mustonen, in linea sempre con il suo gesto enfatico, per la verità più coreografico che efficace, convince ed entusiasma.

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