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Honoré Daumier: l’artista che ha dato voce all’umanità afflitta


di Laura Corchia

“Il faut étre de son Temps”

(H. Daumier)

Nel panorama artistico dell’Ottocento francese, Honoré Daumier si presentò come un isolato interprete del disagio sociale, le cui opere raramente furono esposte nel Salon.

Grande pittore, grande caricaturista e grande scultore, ammirato da Baudelaire e Degas, Daumier nacque il 26 febbraio 1808 a Marsiglia. Il padre, vetraio di professione, si dilettava anche di poesia e, nella speranza di far fortuna, si trasferì a Parigi nel 1814. Raggiunto dalla famiglia poco dopo, malgrado il discreto successo della tragedia Filippo II, non riuscì ad assicurare alla famiglia un accettabile tenore di vita e pertanto Honoré, sin dai dodici anni, fu costretto a lavorare prima come fattorino e poi come commesso in una libreria.

Honoré Daumier, Crispino e Scapino, 1864
Honoré Daumier, Crispino e Scapino, 1864



Il precoce interesse per il disegno lo portò poi a prendere lezioni da Alexandre Lenoir e poi ad iscriversi all’ Académie Suisse.

Nel 1830 prese parte alla Rivoluzione che abbatté la monarchia di Carlo X e cinque anni più tardi cominciò ad eseguire caricature per il giornale La Caricature e per il quotidiano Le Charivari. Il direttore di quest’ultimo gli commissionò poi una serie di busti-caricatura di uomini politici e magistrati in terra cruda policroma.

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Condannato a sei mesi di prigione per le caricature Gargantua e La cour de roi Pétaud, nelle quali veniva preso di mira Luigi-Filippo, fu poi costretto a mutare i soggetti delle sue caricature, dedicandosi alla satira di costume.

La sua attività di pittore ebbe inizio nel 1848, quando il governo repubblicano bandì un concorso per un’immagine che rappresentasse la nuova Repubblica. Daumier presentò un’opera dal titolo La Repubblica nutre e istruisce i suoi figli.

Caratteristica della sua opera fu l’incompiutezza, una tendenza a privilegiare l’essenziale rispetto al superfluo. I dipinti di Daumier parlano di un’umanità sopraffatta, disperata, che sembra non avere neanche il diritto di stare al mondo. Poveri viaggiatori in treni di terza classe, immigrati sconsolati, lavandaie sfinite dal lavoro.

Honoré Daumier, La lavandaia, 1863
Honoré Daumier, La lavandaia, 1863

L’artista diede voce ad una corale sofferenza che chiedeva solo di essere ascoltata. Ne La lavandaia, ad esempio, protagoniste sono la donna e la figlia che salgono dalle rive della Senna aiutandosi l’una con l’altra. Le due figure si compenetrano e si risolvono in pennellate fatte di pochi, essenziali colori. Predominano il nero, il bianco, i marroni e pochi sprazzi di azzurro.

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Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, 1862
Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, 1862

Il vagone di terza classe fu realizzato nel 1862 e rappresenta forse l’opera più nota di Daumier. La sua umanità anonima e differente è ammassata in un vagone, immersa in una penombra crepuscolare. Questi uomini e queste donne sono forse di ritorno dal lavoro, dopo l’ennesima giornata interamente trascorsa nei campi. Tre figure in primo piano catturano la nostra attenzione: la donna al centro, dallo sguardo afflitto e pensoso, il ragazzino che si è abbandonato al sonno, la giovane madre che allatta un bambino. Le altre persone, rappresentate di spalle e di fronte, si scorgono appena. Volti diversi segnati dalla stessa sofferenza.

All’ultimo periodo dell’attività dell’artista risalgono i cicli dedicati a Don Chisciotte e ai Saltimbanchi, allusivi all’isolamento dell’artista e all’impegno per la difesa dei più deboli. Anche il suo stile cambiò, divenendo sempre più sintetico.

Le sue opere, troppo crude e socialmente impegnate, non furono comprese dai contemporanei. Honoré Daumier morì in miseria e in solitudine, così come l’umanità che tanto aveva amato e difeso. Ma il suo impegno non fu del tutto vano. Delacroix gli aveva scritto: “Non c’è uomo che stimo e ammiro più di lei”. 

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