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Gli alchimisti alla ricerca della pietra filosofale

Anche se molti la consideravano una forma di magia, se non pura ciarlataneria, nel XVI e XVII secolo l’alchimia attrasse scienziati importanti come Newton e portò a ricerche che spianarono la strada alla chimica moderna


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Nel 1689 il parlamento inglese prese una decisione sorprendente: abrogò una legge in vigore dal XV secolo che vietava la moltiplicazione di oro e argento. In origine la legge aveva l’obiettivo di impedire la circolazione di denaro falso, anche se, naturalmente, con la sua abolizione i falsificatori non sarebbero rimasti impuniti. Il promotore di questa legge era un illustre scienziato, Robert Boyle, membro, sin dalla sua fondazione nel 1660, della Royal Society, una delle più antiche società scientifiche e ancora oggi probabilmente la più prestigiosa al mondo. Il proposito di Boyle era quello di depenalizzare gli esperimenti degli alchimisti per ottenere la pietra filosofale, una sostanza in grado di trasformare i metalli vili in oro.

In questa pittura del 1841, opera di Eugène Isabey, si ha una visione romantica di un alchimista nel suo laboratorio, tra vasi, antichi libri e manoscritti. Palazzo delle Belle Arti, Lille

In questa pittura del 1841, opera di Eugène Isabey, si ha una visione romantica di un alchimista nel suo laboratorio, tra vasi, antichi libri e manoscritti. Palazzo delle Belle Arti, Lille

Foto: Thierry Le Mage / RMN-Grand Palais

   

Sembra strano che l’alchimia fosse ancora presente alla fine del XVII secolo e che fosse rappresentata da un autorevole scienziato britannico, quando solo due anni prima erano stati pubblicati i Principi matematici della filosofia naturale di Newton, probabilmente il più importante lavoro scientifico della storia. Risulta ancora più sorprendente che anche lo stesso Newton fosse un alchimista e che, dopo la pausa per la stesura di quest’opera, fosse tornato con più fervore che mai ai forni e ai vasi alchemici nel suo modesto laboratorio presso l’Università di Cambridge.

Il XVII secolo segna l’inizio di quella che viene chiamata la Rivoluzione scientifica ma che è anche l’età d’oro dell’alchimia, la passione di moda del momento. Nobili e plebei, religiosi, membri di professioni liberali, medici, farmacisti, artigiani e rispettabili professori universitari, ma anche truffatori, ricettatori e venditori ambulanti, studiavano avidamente i processi alchemici. Alcuni di loro speravano di avere accesso al sapere arcano, altri erano semplicemente mossi dal desiderio di arricchirsi con mezzi legali o perfino ai limiti della legge.

Il ricco borghese e alchimista Nicolas Flamel contribuì nel XIV secolo alla manutenzione della chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie a Parigi, di cui oggi rimane solo questa torre

Il ricco borghese e alchimista Nicolas Flamel contribuì nel XIV secolo alla manutenzione della chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie a Parigi, di cui oggi rimane solo questa torre

Foto: Arnaud Chicurel / Gtres

La fase di maggior fervore alchimista, e di intensa attività letteraria a giudicare dal numero di libri pubblicati, si può situare tra il 1605 e il 1615, quando venne scritta la maggior parte dei trattati alchemici più rappresentativi. Nel 1612 fu pubblicato Il libro delle figure geroglifiche, attribuito allo scrivano francese del XIV secolo Nicolas Flamel, che disse di aver trovato la pietra filosofale e la cui leggenda dura fino ai nostri giorni. Flamel appare perfino in fenomeni culturali come la saga di Harry Potter, il giovane mago creato dalla penna della scrittrice britannica J.K. Rowling. Nel primo volume, Harry Potter e la Pietra Filosofale, il piccolo mago deve salvare la pietra dalle grinfie del più grande mago oscuro di tutti i tempi, Voldemort. Nel 1617 fu pubblicata in Germania la prima guida audiovisiva sull’alchimia, Atalanta fugiens, un originale libro di emblemi realizzato dal medico tedesco Michael Maier, presunto membro della società segreta dei Rosacroce.

Invece di mostrarci passo dopo passo quello che faceva un alchimista nel suo laboratorio, tutti questi complicati trattati alchemici sono prodighi di espressioni enigmatiche – “leone verde”, “mercurio dei filosofi”, “testa di corvo”, “colombe di Diana”, “acqua divina”, “spirito universale” – e sono spesso illustrati con immagini simboliche attraenti e allo stesso tempo oscure. Tuttavia, da questi testi possono essere dedotte alcune idee comuni circa i concetti teorici e le linee generali del lavoro degli alchimisti.

Lo scrivano parigino Nicolas Flamel (1330-1418) dichiarò di aver trovato la pietra filosofale, che avrebbe utilizzato per ottenere oro e diventare ricco

Lo scrivano parigino Nicolas Flamel (1330-1418) dichiarò di aver trovato la pietra filosofale, che avrebbe utilizzato per ottenere oro e diventare ricco

Foto: Leemage / Prisma

L’idea di base era che il lavoro dell’alchimista assomigliava a quello della creazione. Si partiva da una sostanza di origine minerale che rappresentava la materia informe, il caos iniziale, che veniva sottoposta a una serie di trattamenti con l’obiettivo di darle vita e di purificarla progressivamente. Secondo i testi alchemici, nel corso di questo processo la materia cambiava sia il colore che l’aspetto. Si ripeteva sempre la stessa sequenza cromatica: il colore nero del materiale trattato si trasformava in bianco, poi in un giallo intermedio e infine in un rosso brillante. Allo stesso tempo la materia adottava forme e qualità biologiche; sembrava crescere e gonfiarsi, come se fermentasse. La sostanza risultante alla fine del processo era, come veniva descritta nei testi, una materia molto pura, di un colore rosso o aranciato, con un aspetto cristallino e molto denso. Era la pietra filosofale, che concentrava in sé l’energia vitale del cosmo e che, secondo la tradizione alchemica, era in grado di trasmutare qualsiasi metallo in oro.

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La trasmutazione dei metalli

Nel periodo d’oro dell’alchimia, e anche per buona parte del XVIII secolo, molti credevano nell’efficacia di questi processi alchemici. In effetti, uno degli aspetti più sorprendenti della storia dell’alchimia è il gran numero di testimonianze di trasformazioni di metalli, come il mercurio e il piombo, in oro e argento. Un libro del 1784 raccoglie un totale di 112 casi. Il modus operandi era sempre lo stesso. Il metallo vile che si desiderava trasformare doveva essere fuso in un crogiolo. Al suo interno veniva gettato un piccolo frammento di pietra filosofale avvolto in carta o cera e, in un breve lasso di tempo, il metallo diventava oro purissimo. Numerose trasmutazioni avvennero in presenza di testimoni qualificati, come lo scienziato britannico Robert Boyle. Un caso molto pubblicizzato all’epoca fu quello del medico Helvétius, che nel 1667 ricevette da uno sconosciuto una polvere del colore dello zolfo in grado di «trasmutare quarantamila libbre di piombo in oro».

A dispetto dell’impossibilità di fenomeni come questi in base alle attuali conoscenze scientifiche, da un punto di vista strettamente storico tutte queste notizie contribuirono a mantenere vivo l’interesse per l’alchimia in un periodo in cui i circoli accademici ed eruditi iniziavano ad allontanarsi da essa.

In quest'olio del XVI secolo di Giovanni Stradano si può osservare Francesco I de’ Medici, in basso a destra, mentre riscalda e agita un liquido nel suo laboratorio alchemico. Palazzo Vecchio, Firenze

In quest'olio del XVI secolo di Giovanni Stradano si può osservare Francesco I de’ Medici, in basso a destra, mentre riscalda e agita un liquido nel suo laboratorio alchemico. Palazzo Vecchio, Firenze

Foto: Raffaello Bencini / RMN-Grand Palais

Inoltre va ricordato che la pietra filosofale non si limitava soltanto a convertire i metalli in oro, rispondendo semplicemente al desiderio di ricchezza. Questa leggendaria sostanza, secondo gli alchimisti possedeva anche molte proprietà medicinali. Inoltre, il suo effetto “purificante” agiva sugli organismi viventi, in particolare sugli esseri umani, preservandone la salute e prolungandone la vita. Fu così che si sviluppò un’importante corrente di sperimentazione alchemica che andava alla ricerca di mitici elisir dalle proprietà straordinarie.

Medicina alchemica

Il primo autore che approfondì questa forma di alchimia fu il francescano inglese Ruggero Bacone nel XIII secolo. Il frate credeva che, anche se l’alchimia non dava l’immortalità, avrebbe potuto allungare la vita fino a raggiungere la longevità dei patriarchi biblici, poiché sosteneva che da quel momento l’umanità aveva subito un processo di degenerazione che l’alchimia avrebbe potuto rovesciare. Già all’inizio del XIV secolo Il testamento, uno dei trattati alchemici più apprezzati durante il Medioevo, erroneamente attribuito al filosofo maiorchino Raimondo Lullo, descriveva la capacità di guarigione e rigenerazione della pietra filosofale, sostenendo che avrebbe potuto far rivivere sia piante che alberi.

Sebbene i più importanti farmacisti dell’epoca si fossero largamente interessati ai processi alchemici, solo pochi fortunati erano in grado di realizzarli con successo. Questo è uno dei motivi che portarono il francescano Giovanni di Rupescissa a proporre, nella metà del XIV secolo, la sua teoria della quintessenza per elaborare rimedi di alto potere curativo tramite procedimenti più accessibili. Questo frate sosteneva che nelle sostanze materiali si trovasse – in stato latente o dormiente – la quintessenza, o quinto elemento, del quale sono fatti gli astri, perfetti e incorruttibili. La manifestazione o attivazione progressiva di questa quintessenza latente si otteneva tramite la distillazione continua di una sostanza come l’alcol in un recipiente speciale chiamato vaso circolatorio o pellicano. Il liquido doveva essere mantenuto caldo a una temperatura moderata (“quella del letame di cavallo”) per un mese. Trascorso questo periodo di tempo, evaporava e si condensava.

Gli alchimisti realizzavano le loro distillazioni in storte come questa, del XVII secolo, per estrarre lo spirito vitale dalla materia. Museo della Scienza e della Tecnologia, Milano

Gli alchimisti realizzavano le loro distillazioni in storte come questa, del XVII secolo, per estrarre lo spirito vitale dalla materia. Museo della Scienza e della Tecnologia, Milano

Foto: Leemage / Prisma

La quintessenza e l’oro potabile

Il processo sembrava produrre notevoli cambiamenti nelle proprietà fisiche delle sostanze “che circolavano” nel pellicano. Nel caso dell’alcol, l’aroma della sua quintessenza era tale che, secondo un testo del XVI secolo, «coloro che sentono l’odore si credono trasportati dalla Terra al Paradiso, quando avvertono questa fragranza celestiale». Se si fosse ingerita questa sostanza quintessenziale, la sua perfezione si sarebbe propagata attraverso l’organismo malato riportandolo in salute. Non c’è da stupirsi che Rupescissa sviluppasse queste idee negli anni in cui l’Europa era devastata dalla peste nera scoppiata nel 1346; l’alchimia poteva dunque essere un rimedio di grande aiuto per combattere le tribolazioni che in quel momento affliggevano l’umanità.

Gli alchimisti fecero addirittura ricorso all’oro come sostanza perfetta in grado di curare le malattie agendo sull’organismo. Tuttavia, questo metallo ha una grande resistenza chimica ed è molto difficile da alterare o corrodere, perciò i tentativi di preparare una sostanza liquida che contenesse oro e che si potesse bere, chiamata “l’oro potabile”, furono destinati al fallimento fino alla scoperta dell’acido nitrico, nel 1300. Questo reagente, mescolato con cloruro di ammonio o con sale comune, permette di ottenere la cosiddetta acqua regia, che ha la capacità di dissolvere il metallo. Questa miscela, però, è molto corrosiva e non può essere ingerita. Nel XVI e XVII secolo furono pubblicate molte ricette per la preparazione dell’oro potabile che cercavano di superare questo limite, anche se con scarso successo. Nonostante ciò, nel XVIII secolo nelle farmacie di Parigi si vendeva un oro potabile che godeva di una buona reputazione ed era conosciuto con il nome della sua inventrice, Mademoiselle Grimaldi. Il procedimento per la sua elaborazione era semplice e al tempo stesso ingegnoso. Si metteva in un recipiente una certa quantità di soluzione di oro in acqua regia. Si aggiungeva dell’olio di rosmarino, che galleggiava sulla soluzione. Lentamente l’oro passava dalla soluzione all’olio che, mescolato in seguito con un po’ di alcol, si trasformava in un liquido rosso vivo e bevibile.

Questo procedimento è stato replicato di recente in un moderno laboratorio e si è constatato che, in effetti, l’oro è presente nell’essenza di rosmarino sotto forma di particelle microscopiche. Nonostante l’astuto procedimento, però, rimane il fatto che le proprietà del prodotto sono a dir poco dubbie. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’oro è un metallo pesante difficile da assimilare per l’organismo e che, in quantità eccessive, può causare gravi danni alla salute.

Disco alchemico. Museo della storia della medicina. Parigi

Disco alchemico. Museo della storia della medicina. Parigi

Foto: Bridgeman / Aci

La redenzione della materia

La millenaria alchimia, così vicina alla scienza moderna per alcuni suoi metodi ma allo stesso tempo così lontana da essa per i suoi obiettivi, è un progetto ambizioso che ci aiuta a capire il processo della creazione del mondo visibile attraverso il lavoro in laboratorio. Molti dei processi alchemici hanno contribuito a realizzare scoperte scientifiche. Al giorno d’oggi, alcuni considerano l’alchimia come il passo immediatamente precedente alla creazione del metodo scientifico. Benché infatti l’alchimia non consista nell’elaborare pigmenti, leghe metalliche o farmaci sintetici, questi ultimi sono suoi sottoprodotti. I ripetuti tentativi, nella vana ricerca della pietra filosofale, non hanno portato alla redenzione della materia e alla trasformazione di metalli in oro, ma hanno lasciato in eredità qualcosa di ben più importante: conoscenza collaterale, che si è rivelata la vera ricchezza.

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