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Gli antichi egizi li usavano nei templi e nelle tombe per onorare gli dei. In possesso di una conoscenza quasi segreta, gli scribi iniziarono a creare nuovi simboli ed erano gli unici a saperli interpretare


La scrittura geroglifica è uno degli elementi più caratteristici dell’antica civiltà egizia. Il viaggiatore che si aggiri tra le rovine dei templi e delle tombe sulle sponde del Nilo si ritrova circondato da mura ricoperte da centinaia di piccoli simboli – figure umane, uccelli, piante – che lo avvolgono come se stesse camminando tra le pagine di un libro illustrato. Le prime iscrizioni di questo tipo risalgono attorno al 3100 a.C. e questo sistema di scrittura è rimasto in uso con qualche leggera modifica fino al IV secolo d.C. Per oltre 3.500 anni i geroglifici hanno quindi mantenuto il loro carattere figurativo. Ciò distingue la scrittura egizia da altri sistemi del Vicino e dell’Estremo Oriente, come il cuneiforme mesopotamico o il cinese, che invece si sono progressivamente allontanati dalle loro origini per evolversi in forme sempre più astratte.

Il colorato soffitto astronomico della prima sala ipostila del tempio di Hathor a Dendera

Il colorato soffitto astronomico della prima sala ipostila del tempio di Hathor a Dendera

Foto: Nick Brundle Photography / Getty Images

In realtà anche in Egitto si svilupparono ben due scritture non figurative: prima lo ieratico, una versione corsiva e semplificata del geroglifico e successivamente il demotico, un sistema derivato dallo ieratico che fu usato a partire dal VII secolo a.C., durante il cosiddetto Periodo tardo. I geroglifici però continuarono a esistere e a essere utilizzati nelle iscrizioni sui grandi monumenti – prevalentemente in tombe e templi – mentre lo ieratico veniva impiegato principalmente nei documenti amministrativi e, a partire dal Medio regno (2055 a.C. - 1790 a.C.), anche per la stesura di opere letterarie. In ogni caso solo i membri delle classi superiori avevano la possibilità d’imparare a scrivere. Col passare del tempo gli scribi che si occupavano di questioni amministrative o economiche iniziarono a studiare solo il sistema ieratico perché il geroglifico non aveva alcun uso pratico in questi campi. Il risultato fu che, se la popolazione che sapeva leggere e scrivere in Egitto era già di per sé una minoranza, coloro che comprendevano i geroglifici costituivano un gruppo ancor più ridotto.



La scuola degli scribi: l’istruzione nell’antico Egitto

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Anche se ci sono poche informazioni sui sistemi educativi egizi, l’apprendimento del geroglifico avveniva probabilmente nell’ambito del tempio, nelle cosiddette "case della vita", dove venivano composti, copiati e conservati i testi religiosi. Questa pratica continuò fino all’epoca romana.

Giochi di parole

Gli scribi specializzati in geroglifico svilupparono un sapere molto complesso e raffinato. Fu così che alcuni di loro iniziarono a sperimentare creando combinazioni e giochi visivi sempre più intricati e sorprendenti.

A Dendera sorge un maestoso tempio dedicato alla dea dalle sembianze di vacca, Hathor, decorato con una moltitudine di iscrizioni geroglifiche

A Dendera sorge un maestoso tempio dedicato alla dea dalle sembianze di vacca, Hathor, decorato con una moltitudine di iscrizioni geroglifiche

Foto: Mike Shepherd / Alamy / ACI

È il caso di alcuni particolari testi incisi su templi e tombe che non seguono le regole abituali di funzionamento del geroglifico. Non si tratta di errori di ortografia, ma del ricorso a una specifica tipologia di segni che gli scribi componevano giocando con le caratteristiche formali e sonore dei grafemi allo scopo di trasmettere un significato aggiuntivo. Gli egittologi definiscono questi testi "scrittura enigmatica" o anche "crittografia", un termine forse meno appropriato in quanto significa scrittura segreta.

L’uso enigmatico dei geroglifici appare già nelle prime opere religiose della storia, i Testi delle piramidi. Ma per circa un millennio – durante l’Antico e il Medio regno – quest’uso restò limitato a singole parole. È a partire dal Nuovo regno (1539-1292 a.C.) che è documentato un ricorso più diffuso alla scrittura enigmatica per brani più lunghi e corposi. Esempi di questo tipo si trovano sia nelle iscrizioni monumentali dei templi e delle tombe private sia nei testi incisi sulle pareti dei mausolei della Valle dei Re, che servivano a garantire il successo del viaggio del defunto nell’oltretomba. Ma il maggiore sviluppo di questo sistema si verificò nell’epoca più tarda della storia egizia, soprattutto a partire dal IV secolo a.C., in periodo greco-romano. In seguito all’applicazione delle regole della scrittura enigmatica infatti il geroglifico divenne molto più complesso. Il suo patrimonio grafico passò da circa ottocento segni a diverse migliaia per le iscrizioni normali. Risalgono a questa fase alcune composizioni visive di straordinaria complessità.

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Giocando con i segni

La scrittura enigmatica creava nuovi segni o utilizzava quelli tradizionali in modo diverso, producendo un’alterazione nella normale lettura del testo. La procedura più comune consisteva nel sostituire un segno con un altro dello stesso tipo (come un uccello con un altro), oppure con uno di forma simile – per esempio uno rettangolare con uno quadrato. Si poteva anche usare una parte per indicare il tutto, come ad esempio la pupilla invece dell’intero occhio, oppure creare nuovi segni combinando quelli già esistenti. Era pure possibile modificare il normale valore fonetico di un segno o creare dei suoni completamente nuovi a partire dall’associazione di simboli differenti.

La tomba di Ramses IV è una delle meglio conservate della Valle dei Re. All’interno ci sono delle iscrizioni con dei testi funerari mirati a facilitare il viaggio del faraone nell’aldilà

La tomba di Ramses IV è una delle meglio conservate della Valle dei Re. All’interno ci sono delle iscrizioni con dei testi funerari mirati a facilitare il viaggio del faraone nell’aldilà

Foto: Alfredo Garcia Saz / Alamy / ACI

Le forme più complesse di scrittura enigmatica riuscivano a combinare al loro interno significati diversi. Una frase poteva essere interpretata tramite una lettura tradizionale e allo stesso tempo avere un senso ulteriore basato sulle immagini che tali segni veicolavano.

Ne è un esempio il Libro di Nut (la dea del cielo). Si tratta di un testo di contenuto teologico e astronomico che compare per la prima volta nel XIII secolo a.C., durante il regno di Seti I, nell’Osireion di Abido (un complesso dedicato al dio Osiride) e che fu in seguito ripetutamente copiato fino all’epoca romana. Al suo interno compare la seguente frase: iw shem seba, «una stella va». I primi due segni corrispondono a una particella utilizzata in lingua egizia che di solito non si traduce, e sono seguiti in questo caso dal verbo shem (andare) e da una stella (seba) rappresentata figurativamente. La particolarità di questa frase è che il verbo shem qui viene composto in modo irregolare a partire da un maiale (shai) e un avvoltoio (mut). Il verbo viene in pratica formato tramite le consonanti dei due termini (la T del secondo non si pronunciava). Questa ortografia apparentemente anomala e bizzarra riassumeva in sé il mito secondo cui la dea del cielo Nut era una scrofa che all’alba divorava i suoi figli, le stelle. Il segno dell’avvoltoio, uno dei modi per indicare il concetto di madre, è affiancato dal maiale da una parte e dalla stella dall’altra.

Il mito di Nut nasce dall’osservazione della natura. Le scrofe, infatti, se si trovano in una situazione di pericolo o non riescono a provvedere a tutta la cucciolata, divorano alcuni dei loro piccoli. Ci sono perfino degli amuleti che rappresentano la dea del firmamento raffigurandola come una scrofa blu intenta ad allattare i suoi maialini. Quest’uso allegorico o simbolico della scrittura geroglifica, molto comune nelle iscrizioni parietali dei templi di epoca greco-romana, è forse all’origine dell’idea che i geroglifici non fossero elementi fonetici ma celassero alcuni significati occulti. Quest’ipotesi ricevette un nuovo impulso quando l’Europa rinascimentale scoprì un’opera intitolata Hieroglyphica, composta dal sacerdote egizio Orapollo nel V secolo d.C., in cui sono spiegati in forma allegorica quasi duecento segni. Oggi si ritiene che circa la metà di queste interpretazioni sia corretta. Le spiegazioni del sacerdote egizio si basavano sulle credenze di epoca faraonica relative all’origine e al significato dei geroglifici, che si accordavano con i principi dell’ortografia enigmatica. Secondo l’autore, ad esempio, l’idea di eternità era indicata attraverso i due ideogrammi di sole e luna, «per il fatto che questi sono elementi eterni»; oppure per mezzo della figura di un «serpente con la coda nascosta sotto il corpo, che chiamano ureo […] perché è l’unico serpente immortale».

Questa statuetta di maiolica rappresenta la dea del cielo con sembianze di scrofa intenta ad allattare i suoi piccoli, come descritta nel Libro di Nut

Questa statuetta di maiolica rappresenta la dea del cielo con sembianze di scrofa intenta ad allattare i suoi piccoli, come descritta nel Libro di Nut

Foto: Print Collector / Getty Images

Molte delle idee di Orapollo non erano dunque invenzioni o errori interpretativi come si è creduto per un certo tempo, ma derivavano probabilmente dalla generalizzazione della scrittura enigmatica in epoca greco-romana. La tendenza a decodificare i geroglifici in maniera esclusivamente simbolica fu il principale ostacolo che ne impedì il riconoscimento come elementi fonetici e che di conseguenza ritardò di diversi secoli la decifrazione dell’antica scrittura egizia.



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Tuttavia, benché oggi gli studiosi abbiano raggiunto una conoscenza abbastanza precisa del funzionamento della scrittura geroglifica, molte delle sue ortografie enigmatiche e connotazioni speciali restano ancora appannaggio esclusivo degli scribi, proprio come avveniva secoli fa.

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