di Marco Ranaldi
È nel Don Giovanni che Mozart effonde il suo inossidabile desiderio di comporre il capolavoro ed è con quest’opera che il teatro musicale lo ricorda. Nel Convitato vi è una profondissima crisi personale e una deriva professionale fatta di tanti anni spesi a credere di essere uno dei tanti compositori alla stregua di nobili benefattori e mecenati . In realtà Mozart è stato uno dei rarissimi esempi di compositore ricchissimo di maestria. E forse nel Don Giovanni infonde ciò che una vita fatta di spregi, delusioni e frustrazioni gli aveva dato. Lui figlio di violinista che lo pone ben presto nella pugna artistica, vivrà probabilmente con un continuo senso di inadeguatezza e di costante incomprensione. Si sa che ai suoi tempi l’opera non era ancora quella macchina dello spettacolo che sarebbe divenuta con il romanticismo.
Fra opera buffa e opera seria si assiste ad una costante evoluzione del teatro lirico fino ad arrivare al melodramma di chiara matrice italiana. Il Don Giovanni è l’opera che rompe gli schemi e che apre la strada ad un diverso teatro di cielo e di terra e con Giovanni Da Ponte, Mozart crea quella trilogia che assurge ad alti livelli di composizione. Iniziata con Le nozze di Figaro ( 1786) prosegue con il Don Giovanni (1787) e termina con Così fan tutte (1790). In pochi anni i due creano una corazzata invincibile della scrittura teatrale. Il Don Giovanni è un opera complessissima ma non è da meno il primo Beaumarchais delle Nozze dove gli intrecci, le sovrapposizioni e i netti richiami alla psiche umana fanno un primo capitolo d’amore dell’eros e del pathos. Il passaggio fortissimo nel Dissoluto punito e infine l’opera che appare come una piecé leggera ovvero Così fan tutte.
Se nel Don Giovanni le forti relazioni peccaminose sono condannate, nel Così il peccato di vivere diventa un gioco, infantile quasi, ma essenzialmente ludico pretesto per chiosare sull’animo umano e sugli atteggiamenti delle persone. È un tentativo quasi sociologico da parte di Da Ponte di comprendere come si comportano uomini e donne di fronte al tema del tradimento e della gelosia. Il tutto sembra dissolversi come neve al sole ma nel frattempo la narrazione serrata porta ad una serie di intrecci che si sciolgono, solo apparentemente alla fine dell’opera, quasi preludio a quello che racconterà Franz Lehar un secolo dopo. In tutto questo Così fan tutte è opera di altissima scrittura, con una serie di numeri e di parti d’intensa composizione sia nella musica che nel testo. Da Ponte non lesina di far presa su quella cultura neo classica dalla quale viene e dalla quale fugge verso Byron. Mozart invece somma la disperazione di un secolo di aperture verso una conquista del genere umano e del proprio divenire previvendo il tempo romantico.
Quindi Cosi fan tutte è vero che chiude una trilogia ma apre la storia verso l’indispensabile divenire umano partendo dal sentimento. Rappresentare Mozart non è mai facile, soprattutto nella trilogia dapontiana. Il concetto è difficile da rendere, regia, scenografia, lettura dei segni. Togliere la scena e lasciare quindi l’essenzialità della musica e del testo rende di gran lunga per comprendere la follia creativa. Coraggiosa quindi la scelta di chiudere la Stagione sinfonica dell’Accademia di S. Cecilia con la proposta in forma concertistica dell’ultima opera mozartiana. La bacchetta è nelle solide mani di Seymon Bychkov, sovietico direttore di raffinata musicalità. È rarissimo vedere un gesto come il suo, dolce e deciso, soave nei movimenti e imperante sulla compagine. Sincero, forte e decisamente conoscitore della partitura, Bychkov interpreta in maniera quasi filologica l’opera mozartiana. Ed è perfetta l’andatura dei movimenti, i vari segni dinamici e soprattutto le tante intrinseche pagine di voci e d’orchestra. Per non parlare dei recitativi sostenuti non dal clavicembalo ma dal fortepiano egregiamente suonato da Angelo Michele Errico. Il cast è delle grandi produzioni. Delle tre voci maschili è apprezzabile l’ottima presenza scenica oltre che le doti tecnico-interpretative. Don Alfonso-Pietro Spagnoli, Guglielmo-Markus Werba, Ferrando-Paolo Fanale. Fermiamo il tempo per comprendere l’assoluta bravura di Paolo Fanale che interpreta il ruolo più femminile del maschile dapontiano, ovvero quello di Ferrando. A lui Mozart destina una serie di parti interessanti ma ciò che è la chiave di volta dell’intera opera è l’aria Un’aura amorosa che in sé racchiude il tema portante della composizione ovvero la debole e flebile forza umana di fronte all’amore e che nei versi un’aura amorosa del nostro tesoro, un dolce ristoro, al cor porgerà:al cor che, nudrito da speme, da amore, di un’esca migliore bisogno non ha svela la sua struggente realtà.
Il significante musicale sta proprio nelle lievità con cui Mozart tratta il centro del suo lavoro e l’interpretazione di Fanale è volutamente intensa, da bel canto quasi in una sorta di lieve bellinismo. Ed è sempre Ferrando che nella sua eterna ed eterea sintesi del femminile conduce l’opera al termine, surclassando le idee illuministe per aprirsi al tempo romantico della caducità, della vita umana. Sul fronte femminile le tre interpreti sono state abbastanza convincenti: Fiordiligi-Corinne Winters, Dorabella-Angel Brower, Despina-Sabina Puertolas. Le due sorelle nel testo si muovono agilmente, forse a volte si bloccano nella fluidità del canto, mentre la serva non proprio padrona ma scaltra resa dal rosso di Sabina Puertolas non sempre respira attraverso il movimento del suono e spesso si chiude proprio nella migliore emissione. Dell'orchestra di Santa Cecilia della sua tecnica e del suo suono c’è veramente poco da scrivere se non meravigliarsi come in tempi di dismissioni, di disinteressi e di poca professionalità rimanga in Italia un chiarissimo esempio di come si fa musica. E lo stesso vale per il coro diretto da Ciro Visco. Sintesi di intenti, significativi significanti sono le chiavi di letture dell’opera mozartiana appresa nella sua perfetta interezza sonora grazie proprio a questo utilissimo allestimento unico e probabilmente irripetibile.
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