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Barthélémy d'Eyck, Ottobre, Chantilly, Museo Condé, Trés Riches Heures, c.10v. 1450 ca. |
In alcuni post passati, mi sono occupato dei metodi che la storia dell’arte usa per svolgere uno dei suoi compiti principali e più complessi, la datazione delle opere d’arte:
QUI la datazione per via d’analisi stilistica e d’analisi documentaria, e
QUI la datazione mediante le indagini tecniche – la diagnostica artistica.
Un aiuto per la datazione può venire anche dall’analisi dell’iconografia:
QUI, per esempio, ricordavo come la presenza di una giraffa aiutasse Panofsky a inquadrare cronologicamente un dipinto mitologico di Piero di Cosimo. Questa volta, invece, voglio parlarvi di un saggio splendido di Luciano Bellosi, uno dei maggiori conoscitori del secolo scorso, che mostra come, partendo dall’analisi iconografica, si possa giungere a modificare la datazione di un’opera – o, come in questo caso, di una parte essenziale di un’opera – con esiti storiografici che possono risultare addirittura rivoluzionari.
Il saggio si intitola
I Limbourg precursori di Van Eyck? Nuove osservazioni sui “Mesi” di Chantilly[1]; risultato finale dello studio è la confutazione un’opinione radicata: che cioè i fratelli Limbourg siano stati appunto i precursori di Jan Van Eyck. E a questo risultato Bellosi giunge proponendo una datazione diversa di alcuni
Mesi del Calendario delle
Très Riches Heures di Chantilly, codice miniato per il Duca di Barry.
Il punto di partenza per Bellosi è dunque l’iconografia, nella fattispecie la moda del tempo per come è presentata nelle miniature, essendo egli convinto che «una ricerca sullo sviluppo della moda e del costume sia di enorme importanza – soprattutto nel Tre e nel Quattrocento – per la datazione dei prodotti artistici».
[2] E, nel caso delle miniature oggetto del saggio bellosiano, questo discorso si dimostra particolarmente valido; lo studioso infatti puntualizza che «Qualcuno potrà considerare sacrilego guardare al Calendario delle
Très Riches Heures di Chantilly come a un documento della moda e del costume; eppure non c’è dubbio che una parte del fascino straordinario di fogli come quelli di
Gennaio,
Aprile,
Maggio o
Agosto si deve anche alla moda. Una moda che è del resto in stretta simbiosi con gli ideali figurativi del momento: si pensi a quanto il gusto per la calligrafia, così diffuso in questi anni di gotico estremo, si esalti in quelle vesti lunghe, leggere e ridondanti di pieghe o nella
silhouette di una figura in profilo che indossi l’abito con l’alto colletto a campanula».
Insomma, abbiamo nel Tardogotico una perfetta adesione tra un ricorrente elemento iconografico e lo stile artistico del periodo.
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Barthélémy d'Eyck, Dicembre, Chantilly, Museo Condé, Trés Riches Heures, c.10v. 1450 ca. |
Qual è, quindi, l’intuizione di Bellosi? Lo studioso, proprio in base agli abiti vestiti dai vari personaggi dipinti, capisce che le scene più innovative, quelle cioè che più sembrano preludere a Van Eyck – i Mesi di Ottobre e Dicembre -, sono in realtà di un’epoca posteriore, da collocare «verso la metà del secolo», e dunque realizzate da un altro artista: un artista che chiaramente non può anticipare Van Eyck, che anzi da lui dipende, e che la critica ha riconosciuto in Barthélémy d'Eyck. I Limbourg, allora, sono sicuramente «gli artisti più incantevoli tra quelli che operano nell’area del cosiddetto Gotico Internazionale; ma, in fondo, i loro ideali artistici non differiscono molto da quelli – poniamo – di un Lorenzo Monaco».
A questo punto, una piccola considerazione: se non si tenesse l’iconografia – in questo caso la moda – nel giusto conto, se dunque si realizzasse uno studio esclusivamente formalistico, le novità dei Mesi di
Ottobre e
Dicembre si potrebbero erroneamente considerare come evoluzioni stilistiche di un artista che, improvvisamente, riesce ad andare oltre gli stilemi gotici e a proiettarsi verso un naturalismo realista e più concreto (come prima di Bellosi era stato fatto): ecco dunque che l’analisi iconografica può servire come correttivo – o, se vogliamo, come compagna – dell’analisi stilistica. E questo lo dico non per sostenere l’improbabile superiorità di un’analisi sull’altra, ma solo per ribadire quella
metodica del dubbio di cui vi ho parlato
QUI QUI e
QUI.
Questo è, almeno per me, l’insegnamento metodologico del saggio di Luciano Bellosi.
Mi sembra inutile, in una sede come questa, entrare nello specifico delle proposte (quelle relative ai Mesi iniziati dai Limbourg e continuati da Barthélémy, per esempio) e delle analisi - stilistiche e iconografiche - di Bellosi: sarebbe un riassuntino inutile. Insomma, la cosa migliore che potete fare è leggere il saggio, non ve ne pentirete!
Voglio solo ritornare su un punto: in apertura parlavo di risultati “rivoluzionari”, e non credo di aver esagerato, nel caso di questo saggio. Non solo perché, come spiega Bellosi, è la vicenda del Tardo Gotico nel suo insieme «ad essere ridimensionata in qualche modo, per quanto è della sua componente naturalistica»; ma perché, chiarendo che il naturalismo dei Limbourg è un qualcosa di molto lontano dalla ricerca di un nuovo realismo, riporta la problematica della resa più diretta e veritiera della natura in territorio italiano
[3], verso cioè quel Gentile da Fabriano le cui sperimentazioni si pongono «all’avanguardia non solo della pittura italiana, ma dell’intera pittura europea, e sono un diretto preannuncio dei tempi di Jan Van Eyck e della nuova pittura fiamminga».
[4]
[1] Il saggio, del 1975, è ora contenuto in L.Bellosi,
Come un prato fiorito. Studi sull’arte tardogotica, Jaca Book 2000. È un volume spettacolare, che vi consigliai anche
QUI, e che vi raccomando ancora una volta.
[2] Questa intuizione di Bellosi (che lo stesso studioso riprenderà in studi successivi) è ormai universalmente accettata, e per lo studio del Tardogotico può essere realmente essenziale – vedi, per esempio, il saggio
Moda e pittura tardogotica di Victor M.Schmidt in
Nuovi studi sulla pittura tardogotica. Intorno a Gentile da Fabriano, atti del Convegno, Sillabe 2007
[3] Segnalo come allo stesso fondamentale risultato storiografico – cioè il ricondurre all’Italia la nascita dell’interesse verso la natura – giungeva nel 1950 Otto Pächt in uno splendido libretto di recente tradotto in italiano - finalmente - da Einaudi, con una bella introduzione di Enrico Castelnuovo, O. Päcth,
La scoperta della natura. I primi studi italiani, Einaudi 2011.
[4] Passaggio tratto dallo studio, del 1993,
Gentile da Fabriano e il polittico di Valle Romita, contenuto sempre in
Come un prato fiorito. Bellosi, dunque, ritornando dopo quasi vent’anni sul tema del saggio sui
Mesi di Chantilly, può ridimensionare quella portata «bruscamente rivoluzionaria», in quanto del tutto isolata da qualsiasi contesto, della figura di Van Eyck – che ora, appunto in Gentile, un precursore lo trova.
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