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Nel mondo greco la regina Clitennestra, empia assassina del marito Agamennone, è evocata come la donna più malefica tra tutte, falsa e vendicatrice. Eppure negli ultimi decenni le sue ragioni sono state lette con sfumature diverse, e se n'è colto l’animo deluso e tradito. L’ultimo verdetto su quest’affascinante e controversa figura del mito rimane perciò a chi legge


Clitennestra dopo l’assassinio, olio di John Collier, 1882

Clitennestra dopo l’assassinio, olio di John Collier, 1882

Foto: Pubblico dominio

Il re di Argo, Agamennone, potente e tracotante capo dei greci nella guerra di Troia, giace riverso a terra accanto alla vasca da bagno. Vicino a lui il corpo martoriato di Cassandra, la sacerdotessa figlia del re troiano Priamo, ormai schiava e concubina del generale. Sono appena tornati ad Argo dalla città sconfitta e, dopo gli onori rituali, hanno trovato subito la morte. Sul palcoscenico, davanti alle salme coperte da un lenzuolo, compare la moglie di Agamennone, Clitennestra o Clitemnestra, feroce, con la scure insanguinata tra le mani. Il coro di vecchi argivi è sorpreso, la regina minacciosa: «Voi volete provarmi come io fossi una donna insensata. Ma il mio cuore non trema [...] O lode o biasimo è lo stesso per me. Sì, questo è Agamennone, mio sposo; per questa mia mano è qui cadavere; e fu giustizia. Così è».

È questa una delle scene più violente dell’Agamennone, prima tragedia della trilogia Orestea, con cui Eschilo vinse gli agoni tragici nel 458 a.C. La trilogia racconta la vendetta di Clitennestra sul marito, poi l’uccisione della stessa e dell’amante Egisto da parte del figlio di lei, Oreste, che viene quindi inseguito dalle mostruose Erinni e infine assolto da un tribunale umano voluto dagli dei, l’Areopago. La saga degli Atridi – della famiglia di Agamennone, figlio di Atreo – è considerata da molti la più cruenta del mito greco: genitori che sacrificano la prole, mogli assetate di rivalsa, figlie rancorose verso le madri, figli omicidi... La loro storia non risparmia morti tremende, compiute in nome di antichi dolori e di rinnovati rancori.

Motore della vicenda è Clitennestra, figlia di Tindaro di Sparta e di Leda, sorella di Elena di Troia e madre, secondo alcune versioni, d’Ifigenia, Elettra, Crisotemi e Oreste. Sulla sua figura hanno ragionato e scritto Omero, lirici come Pindaro e Stesicoro, tragediografi ateniesi e, nel corso dei secoli, una serie numerosa di artisti, antropologi e intellettuali. Clitennestra affascina per il suo essere ambigua e spietata, calcolatrice e falsa, lasciva e funesta ma, nel tempo, si è ammantata di significati diversi. Questa figura di madre vendicatrice o amorevole è esistita davvero? E, soprattutto, cosa svela dei tempi antichi e dei moderni?

La presunta tomba di Clitennestra fuori dalle mura di Micene

La presunta tomba di Clitennestra fuori dalle mura di Micene

Foto: Dennis Jarvis, CC BY-SA 2.0, pubblico dominio

La realtà storica

Nel II secolo d.C. Pausania, autore della Periegesi della Grecia, indica Micene, famosa città dell’Argolide, come luogo in cui sono sepolti Agamennone e i suoi compagni, uccisi da Clitennestra e da Egisto durante il banchetto di benvenuto – quest’ulteriore versione, riportata da Omero e da Sofocle, esclude la morte nel bagno, senz’altro più scenografica – e riferisce inoltre che, fuori le mura, sono presenti le tombe della regina traditrice e dell’amante.

Sulla base di tali indicazioni, nel 1876 l’archeologo Heinrich Schliemann avrebbe rinvenuto la cosiddetta tomba di Agamennone, celebre per la maschera funeraria in oro, e scavi seguenti avrebbero portato alla luce la presunta tomba di Clitennestra, risalente anch’essa alla civiltà micenea (1250 a.C. circa). È però difficile poter sostenere con certezza che la madre di Oreste sia esistita veramente, mentre è rilevante che, nei testi in cui si parla di lei, appaiano diversi concetti relazionati sia alla cultura micenea sia a quella che l’avrebbe portata in scena, la cultura ateniese del V secolo a.C.

Maschera funeraria che si ritiene appartenuta ad Agamennone. Micene, 1600-1500 a.C.

Maschera funeraria che si ritiene appartenuta ad Agamennone. Micene, 1600-1500 a.C.

Foto: Cordon Press

Tra giustizia e vendetta

Si delineano così la riflessione su vendetta e giustizia, da un lato, e la rappresentazione della donna, dall’altro. Dopo aver ucciso il marito, Clitennestra afferma: «E fu giustizia». La giustizia, incoraggiata dagli dei, si è compiuta grazie a lei, eppure quella giustizia di cui parla sembra corrispondere più a una vendetta personale o familiare. E in effetti anticamente il confine tra i due termini era piuttosto labile. Prima che le leggi delle polis definissero e limitassero il potere d’azione degli uomini, in epoca micenea la giustizia era spesso una vendetta privata per un torto subito o per l’onore macchiato. Clitennestra riconosce ad Agamennone una colpa tremenda: aver ucciso la figlia Ifigenia, chiamata ad Aulide con un pretesto e lì sacrificata sull’altare di Artemide, precedentemente offesa dal re, in modo che la flotta greca potesse salpare tranquilla alla volta di Troia. Dieci anni più tardi, Clitennestra non si dà ancora pace e, dopo essersi legata al cugino di Agamennone, Egisto, ordisce la trappola mortale.

Non solo: sull’intera famiglia pesa un altro delitto, che la condanna inesorabilmente a perpetuare i crimini. Il padre di Agamennone, Atreo, aveva infatti dato in pasto al fratello Tieste i tre figli che questi aveva avuto da una ninfa. Come avviene per altri miti, come quello di Edipo, la colpa dei padri ricade sui figli. E la catena di delitti coinvolge l’intera stirpe di Atreo, perché poi Oreste, spronato dalla sorella Elettra, ucciderà la madre ed Egisto, salvo poi essere assolto dal tribunale dell’Areopago. Solo con l’istituzione della democrazia – sembrano affermare i tragediografi del V secolo a.C., e soprattutto Eschilo – avviene il passaggiodalla giustizia personale a quella delle leggi. Ma la vicenda di Oreste perseguitato dalle Erinni, esseri spaventosi dalla testa di serpe, merita un capitolo a sé, per la complessità delle vicende trattate.

Il rimorso di Oreste, o Oreste perseguitato dalle Furie, olio su tela di William-Adolphe Bouguereau, 1862. Chrysler Museum of Art di Norfolk in Virginia

Il rimorso di Oreste, o Oreste perseguitato dalle Furie, olio su tela di William-Adolphe Bouguereau, 1862. Chrysler Museum of Art di Norfolk in Virginia

Fonte: Pubblico dominio

Clitennestra cagna e vipera

Tornando alla sovrana di Argo o di Micene, a seconda delle versioni, ecco un altro aspetto degno di nota: la sua caratterizzazione. Destinata a dare «mala fama a tutte le donne», come suggerisce Omero nell’Odissea, assieme alla tristemente nota Pandora Clitennestra è il modello negativo per eccellenza e svela la concezione misogina del mondo ellenico. In Omero è dolometis, "dal pensiero ingannevole", e kynopis, "dallo sguardo di cane", metafora animale che torna anche in Eschilo. Ebbene, come sostiene Cristiana Franco, il cane allude proprio al fatto che, per i greci, le donne hanno una natura differente rispetto a quella degli uomini, perché incapaci di controllarsi e sempre pronte a mettere il naso nelle questioni maschili.

In Eschilo Clitennestra è anche echidna, "vipera": «O Zeus, Zeus, sii spettatore di questi fatti, / guarda la stirpe privata dell’aquila padre, / che ha trovato la morte avvolto nelle spire / di una terribile vipera», afferma Oreste nelle Coefore, seconda tragedia dell’Orestea. Clitennestra inganna con le sue spire e morde a tradimento il re nobile come un’aquila. L’accoglie a casa, si mostra fedele e innamorata, gli offre ogni onore e poi lo massacra senza pietà. Tornerà legata ai rettili quando invoca le Erinni perché puniscano il figlio.

Ecco quindi come sono le donne, e come non dovrebbero essere: il modello a cui fare riferimento è Penelope, non certo Clitennestra, che regna da sola e trama vendetta, come fosse un uomo. La cristallizzazione misogina di Clitennestra si è mantenuta intatta per secoli, tanto che Boccaccio, nel De claris mulieribus, considera: «Diventò più famosa per il suo scellerato ardire». Al pari di altri autori, non cita nemmeno Ifigenia, ma piuttosto ritiene che la donna abbia ucciso il marito perché bramosa di regnare, o per non far scoprire l’adulterio con Egisto. Per secoli e secoli nessuna attenuante è concessa alla colpevole Clitennestra, protagonista anche di drammi barocchi e neoclassici.

Il sacrificio d'Ifigenia di Giandomenico Tiepolo, 1760 circa

Il sacrificio d'Ifigenia di Giandomenico Tiepolo, 1760 circa

Foto: Pubblico dominio

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Il matriarcato e le nuove riscritture

Tuttavia, pian piano varie teorie aggiungono nuovi valori: è estremamente importante il ruolo di Johann Jakob Bachofen, storico e antropologo del XIX secolo, che nel Matriarcato (1861) associa la vicenda di Clitennestra al passaggio storico tra il matriarcato, di cui lei è rappresentante, e il patriarcato. Attenzione, però: ai tempi dello storico l’antico matriarcato era ritenuto uno stato di barbarie o un ritorno allo stato selvaggio, mentre il patriarcato garantiva ordine e rispetto delle leggi. Bisognerà attendere il secolo seguente perché la figura di Clitennestra venga riabilitata. La filosofa Luce Irigaray si appoggia alla teoria del matriarcato per sottolineare invece come l’Oreste di Eschilo testimoni la violenza del patriarcato, di cui le donne sono vittime: Clitennestra deve essere interdetta, esclusa, eliminata.

Saranno quindi le artiste, ma non solo loro, a restituire dignità a questo personaggio ferito di madre e di moglie: nelle Mosche (1943) di Sartre, per esempio, una Clitennestra pentita mostra il suo affetto alla figlia Elettra, che la respinge duramente; in Fuochi (1936) di Marguerite Yourcenar la regina agisce perché ignorata dall’arrogante marito: «Soltanto per questo l’ammazzavo, per costringerlo a rendersi conto che io non era una cosa senza importanza che si può lasciar cadere o cedere al primo venuto». Acquisisce una complessità psicologica non indifferente, che porta a indagare, e forse in parte ad assolvere, il suo comportamento.

Nell’opera teatrale I sogni di Clitennestra (1980) Dacia Maraini riscatta la sovrana del mito, ora operaia tessile dei nostri giorni e moglie di un fedifrago industriale emigrato negli Stati Uniti: qui la donna non uccide nemmeno Agamennone, ma è comunque punita perché esempio di libertà femminile. Sono i suoi stessi figli a volerne l’internamento psichiatrico per oscenità e follia.

E una nuova trasposizione del mito, anch’essa italiana, conduce Clitennestra nelle maglie della camorra. Come scrive Valeria Parrella nel duro monologo Il Verdetto (2007, 2020), Clitennestra è una giovane di buona famiglia che si lega a un boss della camorra. Non gli perdona, però, la morte di Ifigenia in uno scontro a fuoco, l’assenza decennale – non a Troia, bensì presso la Sacra corona unita pugliese – e il tradimento con la figlia di un altro boss, Cassandra. Clitennestra è colpevole del crimine, certo, ma le sue ragioni tornano a essere quelle del mito, stavolta accolte e lette in una luce diversa, più indulgente nei confronti della donna e del suo sentirsi madre e moglie tradita.

Avviene così che nella contemporaneità Clitennestra non sia più cagna, vipera, infida, ambigua, bensì una donna coraggiosa, affranta e turbata, di cui bisogna comunque cogliere le sfumature senza pregiudizi e senza misoginia. Solo così sarà possibile esprimere un verdetto equanime.

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