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Chi è oggi il pubblico delle gallerie d'arte contemporanea? Intervista con due galleristi


 Da chi è composto oggi il pubblico delle gallerie d'arte contemporanea? Cosa significa visitare una galleria? E cosa si fa nelle gallerie? Ne abbiamo parlato con due galleristi: Alessia Calarota (Galleria d'Arte Maggiore g.a.m.) e Tommaso Calabro.

Alessia Calarota è la direttrice della Galleria d’Arte Maggiore g.a.m., fondata a Bologna nel 1978 da Franco e Roberta Calarota, che nel corso dei decenni è riuscita, grazie a una collezione di opere di alto livello, ad affermarsi sulla scena d’arte internazionale. Tommaso Calabro è invece il direttore dell’omonima galleria, una galleria giovane, fondata nel 2018 a Milano, che con i suoi progetti, non ultimo quello di “Casa Iolas” in collaborazione con l’artista Francesco Vezzoli, sta cercando di farsi strada nel difficile scenario del mercato d’arte contemporaneo. Con loro oggi vogliamo aprire un dibattito sul ruolo delle gallerie d’arte in Italia e sul perché il pubblico delle gallerie è cambiato negli ultimi anni.

Alessia Calarota
Alessia Calarota


Tommaso Calabro
Tommaso Calabro

FDV: Cari Alessia e Tommaso, nei “decenni d’ oro” delle gallerie d’arte (parlo soprattutto del periodo fra gli anni Sessanta e primi anni Ottanta), le gallerie erano non solo luoghi di vendita, ma anche spazi che hanno favorito la sperimentazione artistica e la scoperta di nuovi artisti, nonché luoghi di scambio e di progettazione. Che cos’è oggi una galleria d’arte? Quali sono i suoi scopi, oltre la vendita? Pensa che le gallerie d’arte possano essere ritenute ancora luoghi di sperimentazione?

AC: Da un articolo di Francesco Bonami apparso su Repubblica nel 2019: “lo Spalletti che ricordo di più è quello che vidi qualche anno fa a Bologna alla Galleria d’Arte Maggiore dove le sue opere erano messe accanto a quelle di Morandi […] Le bottiglie di Morandi e gli spazi di Spalletti erano come le voci in un duetto fra due soprani. Leggerezza e potenza. Due qualità che solo pochi grandi maestri sono stati in grado di creare e controllare nella storia dell’arte”. Recensioni come questa dimostrano come il nostro lavoro abbia ancora importanza per proporre nuove chiavi di lettura su artisti già noti, così come per divulgare la conoscenza sugli artisti in cui crediamo. E a proposito di questi ultimi, quando arrivano le nomine per future Biennali, è una soddisfazione enorme averli accompagnati prima e continuare a farlo durante e dopo.

TC: Come dici tu, Francesca, negli anni Sessanta l’arte si faceva nelle gallerie. I galleristi erano legati agli artisti e ai collezionisti non solo da rapporti di carattere professionale, ma anche da stima e amicizia reciproche. Questo aspetto si è andato progressivamente perdendo, a favore della commercializzazionea fini speculativi dell’arte e all’ascesa delle mega-gallerie. Molti artisti sono diventati irraggiungibili e si è perso quello scambio di idee che era originariamente il cuore pulsante della galleria d’arte. Oggi tutto è più codificato, contrattualizzato e il mercato ha un ruolo centrale nel mondo dell’arte. Tuttavia, esistono ancora realtà che continuano a prestare attenzione alla qualità dei loro progetti e ai rapporti con artisti e collezionisti. È quello che cerco di fare nella mia galleria, che ho concepito come un luogo aperto a tutti in cui proporre un approccio interdisciplinare alle arti, tra moderno e contemporaneo.

FDV: Ho un’altra domanda da rivolgere ad entrambi. Chi scrive ha l’impressione che oggi le gallerie d’arte non siano più interessate, o che lo siano meno, a rivolgersi non soltanto ai collezionisti, ma anche anche agli studiosi in generale. In Germania, dove vivo e lavoro, le gallerie hanno premura di rivolgersi quasi soltanto al pubblico a cui vendere, motivo per cui se si visita un museo lo si troverà pieno di studenti, amanti d’arte e studiosi; le gallerie invece restano un “luogo d’élite”, esclusivo solo per chi compra. Qual è la situazione in Italia? Quale il vostro pubblico di riferimento? Secondo voi perché (se lo è, come penso) il pubblico delle gallerie d’arte è cambiato rispetto a quello di qualche decennio fa?

AC: Negli ultimi dieci anni la globalizzazione ha toccato anche il mondo dell’arte e molti galleristi hanno impostato la propria attività seguendo i dettami dell’industria. La Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. nasce nel 1978 dai miei genitori, Franco e Roberta Calarota, come un luogo di incontro tra artisti, studiosi e collezionisti. Da allora ci siamo sempre attenuti a questo modello: un sistema dalla forte componente umana che sostenga le richieste di un mercato internazionale dove incontrarsi di persona e costruire un percorso personale nell’arte. Una galleria classica: un luogo di incontro, dibattito, orientamento e formazione del gusto. In linea con questo principio, ad affiancare la casa madre a Bologna, sono nate due “home gallery”: quella di Milano nel 2016 e quella di Parigi nel 2008, dei luoghi aperti solo su invito e conosciuti solo attraverso il passaparola da pochi e selezionati amici di amici tra cui studiosi, appassionati e curiosi, che qui si prendono il loro tempo per approfondire tematiche e autori.

TC: In alcune gallerie italiane mancano rapporti continuativi con studiosi e storici dell’arte, che sono invece all’ordine del giorno nel mondo anglosassone, ma credo che ci si stia lentamente muovendo in quella direzione. Nella mia galleria ho collaborato con storici dell’arte e curatori come Luca Massimo Barbero, Alberto Salvadori, Sharon Hecker, Aline Guillermet e Paola Nicolin su mostre e cataloghi, e sono sicuro ci saranno nuove occasioni per collaborazioni di questo tipo. A livello di pubblico, in galleria accogliamo collezionisti, galleristi, storici dell’arte, giornalisti, così come studenti, appassionati d’arte e curiosi. Credo che in un certo senso anche in Italia le gallerie stiano diventando più democratiche. Offrono spesso mostre di livello museale (penso ad esempio all’ultima mostra di William Kentridge da Lia Rumma a Milano) che sono aperte a tutti gratuitamente.

FDV: Alessia Calarota ha preso in mano le redini della Galleria d’Arte Maggiore di Bologna, un lavoro che sicuramente comporta il saper legare la tradizione di famiglia a una nuova prospettiva, la sua. Come ci riesce?

AC: In realtà proprio perché siamo una famiglia, mi piace che ci sia un confronto e uno scambio tra generazioni diverse. Lo reputo un valore aggiunto fondamentale, non solo nella gestione, ma anche nelle nostre proposte di artisti appartenenti ad epoche diverse, ma tutti contemporanei nel loro linguaggio, e nel programma espositivo che mette spesso in dialogo o quegli stessi artisti cronologicamente non coetanei o mondi appartenenti a discipline differenti. Due esempi recenti sono la mostra sull’arte e il design del 2015 che abbiamo portato a Bologna, Milano e Venezia e il dialogo tra Joan Miró ed Antoni Clavé in fiera a New York.

FDV: Tommaso, lasciare il lavoro da Sotheby’s a Milano nel 2018 e fondare una propria galleria nel cuore della città in cui la competizione nel settore è molto alta implica un coraggio non da poco. Cosa l’ha spinta a fare questo passo? In cosa l’hanno aiutata le sue esperienze di formazione e lavoro londinesi?

TC: Da sempre ho saputo che un giorno avrei avuto una galleria tutta mia. Gli studi in Bocconi e al Courtauld Institute mi hanno dato le basi per poter lavorare in una casa d’asta come Sotheby’s. Proprio lì conobbi i Nahmad, i miei futuri datori di lavoro a Londra, parlando con un membro della famiglia durante un’asta senza sapere chi fosse. Quello che nacque come un incontro casuale divenne fondamentale per la mia carriera: poco dopo infatti dirigevo Nahmad Projects a Londra, un’esperienza che mi ha portato in contatto con gli attori del mondo dell’arte internazionale. Nel 2018, a ventotto anni ho deciso di mettermi in proprio, in una città a cui sono legato e in cui avrei trovato meno competizione rispetto a Londra. Non avendo ancora famiglia e avendo la mente completamente libera, rischiare mi è parso naturale.

FDV: L’ ultimo progetto, “Casa Iolas”, in collaborazione con l’artista Vezzoli, pone l’accento su un gallerista che è stato quasi dimenticato, Alexander Iolas, e su una cultura galleristica che forse non esiste più, ovvero quella basata su relazioni personali, d’amicizia, stima e fiducia reciproche, non solo fra gallerista e artista, ma anche fra gallerista e pubblico. Secondo lei, può essere questa mancanza uno dei motivi per cui oggi le gallerie in Italia (e non solo) fanno fatica ad attrarre un pubblico più ampio che non sia solo quello dei collezionisti di fiducia?

TC: Credo che la difficoltà di attrarre nuovo pubblico non dipenda tanto da una mancanza di rapporto con quest’ultimo, ma da come lo si approccia. La comunicazione è fondamentale in questo senso, così come la qualità e l’inventiva dei propri progetti. Durante il primo mese di apertura della mostra Casa Iolas. Citofonare Vezzoli abbiamo avuto una media di sessanta persone al giorno, numeri che difficilmente si contano in una galleria italiana. Per attirare nuovo pubblico, anche quando si lavora su momenti storici, artisti o personaggi come Alexander Iolas, che la storia ha quasi dimenticato, ci vogliono una buona dose di storytelling, un approccio aperto e interdisciplinare alle arti e il coraggio di osare. Il tutto incanalato in una comunicazione digitale tramite social media e su carta stampata.

FDV: Alessia, mi piacerebbe invece rivolgerle una domanda che riguarda l’uguaglianza di genere nel sistema dell’arte. Quali difficoltà (se ci sono) incontra nel suo lavoro come gallerista donna? Pensa che nel sistema dell’arte contemporanea una donna (anche gallerista) abbia più difficoltà ad affermarsi?

AC: Non è una tematica su cui mi sia mai soffermata a riflettere, ma so che storici e curatori stanno provvedendo ad inserire nelle collezioni dei musei internazionali, opere di artiste. In effetti se è vero che tra gli artisti del passato, poche sono le donne, sul fronte delle gallerie ci sono personaggi come Peggy Guggenheim o Iris Clert che hanno fatto storia. Se oggi fa notizia che Cecilia Alemani sia la prima donna italiana diventata direttrice di una Biennale (perché di nazionalità italiana), il vero scoop è che una moglie e mamma sia riuscita a coniugare la sua carriera in questo mondo di viaggi internazionali con la famiglia e un matrimonio solido. Del resto anche l’esempio dei miei genitori, insieme nella vita e sul lavoro da sempre, non è da meno. Forse in un mondo di infinite possibilità, la vera sfida è riuscire ad avere una carriera di successo insieme a una famiglia unita che magari contribuisca a superare quel terribile calo demografico a cui stiamo assistendo in Italia. Del resto sono convinta che la vera distinzione sia nelle capacità individuali, tra chi è bravo e chi no, a prescindere dal fatto di essere donna o uomo.

FDV: Alessia, un’ultima domanda.I due aspetti fondamentali del mercato dell’arte sono i protagonisti del mercato stesso (privati e pubblici) e la promozione dell’istituzione, anche attivando importanti collaborazioni come nel suo caso (ricordiamo il Metropolitan Museum di New York, il Musée d’Art Moderne Ville de Paris e il Reina Sofía di Madrid). Come è cambiata la gestione di questi aspetti con l’avvento del digitale e dei social media? Pensa che sia possibile realizzare mostre in digitale? Qual è la nuova sfida delle gallerie d’arte per incrementare un pubblico che ha difficoltà a prender parte alla vita della galleria in Italia (ma non solo)?

AC: Stiamo assistendo a un cambiamento globale che sta accelerando un processo che era già in atto. Confermo che come Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. abbiamo sempre portato avanti la valorizzazione sul mercato degli artisti che trattiamo, insieme a quella culturale attraverso la partecipazione ad opere pubbliche e le collaborazioni con i musei. Un processo che continuiamo a mantenere in forze, anche durante questa pandemia e che ci ha portati ad inaugurare lo scorso dicembre (2020) una mostra su Giorgio Morandi in un grande museo privato cinese, con grande successo di visitatori. Perché la realtà è che l’attuale tecnologia non riesce a sostituire la fruizione diretta dell’opera d’arte ed a sublimare la voglia di uscire di casa. È vero però che ci permette di creare una serie di mostre come “Ico Parisi. La casa” attualmente online nella viewing room sul nostro sito (https://www.maggioregam.com/viewing-room/), in cui le opere della collezione del famoso architetto riprendono vita nelle stanze dove originariamente erano collocate. Operazione che sarebbe impossibile da realizzare dal vivo (catalogo in vendita nel nostro store online: Ico Parisi. La Casa, a cura di Flaminio Gualdoni, Electa, 1999).

FDV: Tommaso, un’ultima domanda anche per lei. Chi scrive ha avuto modo di osservare che la sua galleria offre anche dei tour digitali ben fatti delle mostre in corso. Si tratta di un’esigenza nata a seguito della pandemia o vuole essere proprio una prerogativa della Tommaso Calabro, quella di indirizzarsi al digitale? Anche a lei chiedo, in chiusura, la stessa domanda che ho fatto ad Alessia, ovvero qual è la nuova sfida delle gallerie d’arte per incrementare un pubblico che ha difficoltà a prender parte alla vita della galleria in Italia…

Nel febbraio 2019 ho iniziato a collaborare con la piattaforma Artland per realizzare dei tour virtuali alle mie mostre. Mi piaceva l’idea di offrire la possibilità di visualizzare lo spazio della galleria anche a chi non poteva o non riusciva a passare in galleria di persona. Durante questo secondo lockdown, il tour virtuale ha rivelato la sua utilità, permettendo alla mostra in corso, Casa Iolas. Citofonare Vezzoli, di arrivare al nostro pubblico. Credo che la sfida più grande al momento sia quella di continuare a offrire progetti culturalmente e, allo stesso tempo, commercialmente validi, in un momento di estrema incertezza economica e sociale.

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Creat de altmariusclassic Dec 23, 2020 at 11:45am. Actualizat ultima dată de altmariusclassic Ian 24, 2021.

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