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Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio. La conquista della quarta dimensione


 Considerato il maggior capolavoro scultoreo di Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verona, 1916), “Forme uniche della continuità nello spazio”, opera ben nota a tutti anche perché riprodotta sui 20 centesimi di euro italiani, è la scultura che ha aperto all'arte contemporanea.

Per comprendere appieno il portato rivoluzionario delle Forme uniche della continuità nello spazio, il capolavoro di Umberto Boccioni, si potrebbe partire da Lucio Fontana e dal suo Manifesto tecnico dello spazialismo: “Il futurismo adotta il movimento come principio ed unico fine. Lo sviluppo di una bottiglia nello spazio, forme uniche della continuità dello spazio iniziano la sola e vera grande evoluzione dell’arte contemporanea (dinamismo plastico), gli spaziali vanno al di là di questa idea: né pittura né scultura ‘forme, colore, suono attraverso gli spazi’”. Fontana, che sarebbe tornato più volte a parlare di Boccioni nei suoi scritti e nelle sue interviste, riconosceva al futurista un primato, alla base di tutta l’arte contemporanea: quello d’aver unito tempo e spazio nella stessa opera. Forme uniche della continuità nello spazio è la descrizione d’una figura che viene colta in movimento, nel suo incedere: le masse del suo corpo sono destrutturate, non vediamo le braccia, i muscoli si trasformano in forme concave e convesse modificate dall’azione dello spostamento. E il corpo diviene una sorta di costruzione architettonica in continuità con lo spazio: lo spazio non è più lo scenario in cui s’inserisce una figura, non è più il fondale sul quale un’azione prende corpo. Boccioni ha conquistato lo spazio: la sua struttura si pone in diretta continuità con l’ambiente nel quale si trova, attorno all’uomo che cammina si forma uno spazio sul quale agisce lo spostamento delle masse, e la luce a sua volta produce effetti sulla forma, guizzando improvvisa e frenetica sui diversi piani della scultura, sui pieni e sui vuoti, e comunicando l’idea d’un corpo ch’esegue un movimento, in piena continuità con lo spazio.

La sua scultura di Boccioni, potremmo dire, vive nel tempo e nello spazio: il tempo agisce sulla figura, la figura agisce sullo spazio fendendo l’aria, gli stessi attriti dell’aria (e dunque lo spazio) a loro volta concorrono a modellare la figura. Le idee di Boccioni trovano, in questa scultura, il loro vertice, il loro compimento. L’idea della simultaneità, intanto: “la forma, nella mia scultura”, ebbe a scrivere l’artista stesso, “è percepita […] più astrattamente. Lo spettatore deve costruire idealmente una continuità (simultaneità) che gli viene suggerita dalle forme-forze, equivalenti della potenza espansiva dei corpi”. Costruendo la sua figura, Boccioni non si limita a presentare l’azione d’un uomo in movimento, né adotta la soluzione cui Balla era giunto un anno prima con i suoi dinamismi, scomponendo il movimento in tutte le sue fasi, risolvendo il problema con una sequenza lineare. Si può cogliere quasi un’eco bergsoniana nella scultura di Boccioni: nella sua opera non esiste un tempo spazializzato, una successione misurabile di attimi. È semmai il tempo della coscienza di Bergson: un tempo come durata, diversamente percepito e vissuto secondo ciò che si prova in quel momento, irripetibile. “Bisogna rendere l’invisibile che si agita e che vive al di là degli spessori”, si proponeva l’artista nel 1911. La simultaneità boccioniana consiste pertanto nel comunicare al riguardante un “complesso di sensazioni plastiche”, per adoperare una sua espressione: l’uomo che si sposta, l’ambiente che cambia al passaggio dell’uomo, l’aria che si muove, le luci e le ombre che mutano dopo ogni passo, le diverse direzioni che la figura può seguire.

Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio (1913, fusione in bronzo del 1931; bronzo, altezza 126,4 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio (1913, fusione in bronzo del 1931; bronzo, altezza 126,4 cm; Milano, Museo del Novecento)

Un complesso di sensazioni da rendere con un’unica figura, secondo le idee che Boccioni aveva desunto studiando le sculture dei cubisti a Parigi, specialmente nei ripetuti soggiorni a cavallo tra il 1912 e il 1913, per alcune mostre che gli offrirono numerosi spunti su cui lavorare. “Si sente il bisogno assoluto di uscire dagli elementi costruttivi trovati in questi ultimi tempi”, scriveva Boccioni a Nino Barbantini da Parigi, il 12 febbraio del 1912. “Questa sintesi [...] non può essere espressa se non per mezzo di elementi oggettivi spiritualizzati. Questa spiritualizzazione sarà data da puri valori matematici, da pure dimensioni geometriche, in luogo della riproduzione tradizionale, ormai conquistata dai mezzi meccanici. [...] Se gli oggetti saranno dei valori matematici, l’ambiente in cui vivranno sarà un ritmo particolare all’emozione che li circonda”. La rivoluzione che ha consentito a Boccioni di conquistare lo spazio sta nell’aver introdotto delle dimensioni che erano sconosciute anche ai cubisti: il movimento, il dinamismo, la velocità, l’energia. Per arrivarci, lo scultore aveva dovuto lavorare su un’altra delle sue idee, la “linea-forza”, il mezzo col quale Boccioni, rifiutando e superando la linea di contorno, dava luogo alle sue scomposizioni, costruiva gli oggetti su traiettorie in movimento, conferiva direzione alla materia, apriva le figure allo spazio rendendole capaci d’assorberne l’energia e di liberarne a loro volta. Le linee-forza, per adoperare le parole stesse di Boccioni, costituivano “la manifestazione dinamica della forma, la rappresentazione dei moti della materia nella traiettoria che ci viene dettata dalla linea di costruzione dell’oggetto e dalla sua azione”.

Quando Boccioni presentava il suo capolavoro, correva il 1913: l’artista aveva cominciato a far scultura da un anno, ma con Forme uniche della continuità nello spazio aveva già segnato, intanto, un affrancamento: “è così ricca d’impulso plastico”, scriveva De Micheli nel 1958, “che la sua lezione resterà senz’altro acquisita dall’arte italiana come invito alla libertà, alla ricerca, all’emancipazione dall’ottocentismo”. E aveva poi costruito le basi per la conquista della quarta dimensione: anche per questo Fontana, che fu tra i primi a riconoscere la rilevanza storica di Forme uniche della continuità nello spazio, se vogliamo anche in anticipo sulla critica degli anni Settanta cui si deve la piena rivalutazione del futurismo, lo pone come suo padre ideale, individuando proprio nel futurismo boccioniano il diretto antecedente dello spazialismo.

Ma prima ancora di Fontana, prima di chiunque altro, il primo a intuire la grandezza di Boccioni e della sua scultura fu un Roberto Longhi ventiquattrenne, che registrò la novità praticamente in tempo reale, inserendola già nella storia dell’arte, continuatrice del barocco, in uno scritto intitolato La scultura futurista di Boccioni, del 1914. Per Longhi, le Forme uniche erano già il capolavoro assoluto di Boccioni. Da parte dello storico dell’arte piemontese c’è, anzitutto, una descrizione dei caratteri formali dell’opera rimasta probabilmente insuperata, con una prosa fiorita, fin quasi all’eccesso. Basterebbe questo passaggio: “il cranio si affusa a pan di zucchero, la spalla globosa resiste, con ombre molli, una curva energetica si comprime nell’ombra, dove l’anca sta per sollevarsi dall’inguine, finché la natica fluendo, pizzicata dall’aria risale in luce, e la coscia di sotto si accartoccia mollemente, raccordando le sue curve ad altre, in guisa che dall’anca al tentacolo rovente terminale una continua ondulazione conchiude lene un movimento sfrenato. L’altra coscia lancia la propria torpedine sbocciando di sotto la polpa in una bacca solidamente carnosa”. Per Longhi, Boccioni era stato in grado di creare una sintesi perfetta, di dar vita a un’opera capace di procedere nello spazio “senza principio né fine”, di “trasfigurare organicamente […] la materia già organizzata nella vita”, di gettare le basi per la fusione tra figura e ambiente. E il suo nome era già da aggiungere a quelli di Giovanni Pisano, Jacopo della Quercia, Michelangelo, Bernini.

Longhi vide le Forme uniche nell’ambito della loro terza esposizione, alla Galleria Gonnelli di Firenze, tra il marzo e l’aprile del 1914: prima, la scultura era stata esibita alla Gallerie La Boétie di Parigi, tra il giugno e il luglio del 1913, e quindi nel periodo delle festività natalizie a Roma, per poi concludere il suo “tour” alla Galleria Centrale d’Arte di Milano alla fine del 1916, in una mostra postuma. Oggi, l’originale in gesso è in Brasile, al Museo d’Arte di San Paolo: dopo la scomparsa di Boccioni, entrò nelle disponibilità del pittore Fedele Azari che lo cedette nel 1928 a Filippo Tommaso Marinetti, e in seguito, nel 1952, la moglie Benedetta Cappa lo vendette a un industriale brasiliano d’origini italiane, Francisco Matarazzo Sobrinho, che lo donò al museo nel 1963. Nel frattempo però dal gesso erano stati ricavati alcuni calchi in bronzo, tutti postumi. Che oggi sono conservati in diversi musei in tutti i continenti.

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