cultură şi spiritualitate
« Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli » | |
(dalla Lettera responsiva a Ranieri de' Calsabigi, 1783)
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Vittorio Alfieri, ritratto di François-Xavier Fabre
Il conte Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803) è stato un drammaturgo, poeta e scrittore italiano.
«Nella città di Asti, in Piemonte, il dì 17 gennaio[1] dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti». Così Vittorio Alfieri - maggiore poeta tragico italiano del Settecento - presenta se stesso nella Vita scritta da esso, autobiografia scritta intorno al 1790. Nel corso della sua breve quanto intensa esistenza lo scrittore non trascurerà neppure questo genere letterario. Del resto, il suo carattere tormentato, oltre che a delineare la sua vita in senso avventuroso, lo renderà un precursore delle inquietudini romantiche.
« Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi... » | |
(da Vita di V. Alfieri, Epoca prima, 1755, capitolo II)
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Vittorio Alfieri nacque dal conte di Cortemilia Antonio Amedeo Alfieri e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon (già vedova del marchese Alessandro Cacherano Crivelli).
Il padre morì nel primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposò nel 1750 con il cavaliere Carlo Giacinto Alfieri di Magliano.
Visse fino all'età di nove anni e mezzo ad Asti a Palazzo Alfieri (la residenza paterna), affidato ad un precettore, senza alcuna compagnia. Dei due fratelli che aveva, Giuseppe Maria morì dopo pochi mesi di vita e la sorella Giulia fu mandata presso il monastero astigiano di Sant'Anastasio.
Nel 1758, per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, governatore di Cuneo e nel 1762 viceré di Sardegna, fu iscritto all'Accademia Reale di Torino.
Alfieri frequentò l'Accademia dove compì i suoi studi di grammatica, retorica, filosofia, legge. Venne a contatto con molti studenti stranieri, i loro racconti e le loro esperienze lo stimolarono facendogli sviluppare la passione per i viaggi.
Dopo la morte dello zio, nel 1766 lasciò l'Accademia non terminando il ciclo di studi che lo avrebbero portato all'avvocatura e si arruolò nell'Esercito, diventando "portinsegna" nel reggimento provinciale di Asti. Rimase nell'esercito fino al 1774 e si congedò col grado di luogotenente.
« A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mio mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse il sangue, venne e me lo cavò. » | |
(da Vita di V. Alfieri, Epoca terza, 1768, capitolo VI)
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Carignano, con successo.
del Monti).
« Un dolce foco negli occhi nerissimi accoppiato (che raro addiviene) a candidissima pelle e biondi capelli davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito o conquisto. » | |
(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1777, capitolo V)
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« Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi. » | |
( da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1790, capitolo XIX)
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Tra il 1799 e il 1801 le vittorie francesi sul suolo d'Italia costrinsero l'Alfieri a fuggire da Firenze per rifugiarsi in una villa presso Montughi. Il suo misogallismo gli impedì persino di accettare la nomina a membro dell'Accademia delle Scienze di Torino nel 1801.
Tra il 1801 e il 1802, compose sei commedie: L'uno, I pochi e I troppi, tre testi sulla visione satirica dei governi dell'epoca; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, sulla soluzione ai mali politici (quasi un testamento politico), La finestra, ispirata ad Aristofane e Il divorzio, frutto di reminiscenze giovanili.
Si spense l'8 ottobre 1803 all'età di 54 anni, probabilmente a causa di una malattia cardiovascolare[3], e venne sepolto nella basilica di Santa Croce. A sua memoria rimane lo splendido monumento funebre di Antonio Canova.
Terminata l'Accademia militare a Torino, e dopo un lungo giovanile vagabondare in vari stati dell'Europa, nel 1775 (l'anno della conversione) rientra nel capoluogo piemontese e si dedica allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo - secondo le sue stesse parole - anni di viaggi e dissolutezze; completa così la sua prima tragedia, Antonio e Cleopatra, che registra un grande successo; seguiranno poi Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra.
La fama delle sue tragedie è legata alla centralità del rapporto libertà-potere e all'affermazione dell'individuo sulla tirannia. Una profonda e sofferta riflessione sulla vita umana arricchisce la tematica quando il poeta si sofferma sui sentimenti più intimi e sulla società che lo circonda.
Le sue tragedie furono rappresentate quando il poeta era ancora in vita ed ebbero un notevole successo nel periodo giacobino.
A Bologna vennero rappresentate tra il 1796 e il 1798 ben quattro tragedie (Bruto II, Saul, Virginia, Antigone).
Le reazioni negli spettatori erano spesso molto singolari, ne parla anche il Leopardi nel suo Zibaldone (1823), che citando la rappresentazione a Bologna dell'Agamennone racconta che:
« Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro tanto odio verso Egisto, che quando Clitenestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse. » | |
Anche Stendhal scriveva da Napoli:
« 27 febbraio 1817. Esco or ora dal Saul al Teatro Nuovo. Si direbbe che questa tragedia tocchi le corde segrete del sentimento nazionale italiano. Il pubblico va in visibilio [...] » | |
(Stendhal, Roma, Napoli e Firenze)
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Le tragedie sono ventidue, compresa la Cleopatra (o Antonio e Cleopatra) poi in seguito da lui ripudiata. L'Alfieri le scrive in endecasillabi sciolti, seguendo il concetto di unità aristotelica. Ecco l'elenco completo:
Tragedie greche:
Tragedie definite della libertà:
Tragedie pubblicate postume
Alfieri volle coniugare il melodramma, molto in auge in quel periodo, con i temi più ostici della tragedia. Nacque così l'Abele (1786), un'opera che egli stesso definì tramelogedia.
L'odio per la tirannia e l'amore viscerale per la libertà, vennero sviluppati in due trattati:
« Io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco. » | |
(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1795, capitolo XXIV)
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Il Misogallo (dal greco miseìn che significa odiare e gallo che sta ad indicare i francesi) è un'opera che aggrega generi diversi: prose, sonetti, epigrammi ed un'ode. Questi componimenti si riferiscono al periodo compreso tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio 1798.
È una feroce critica di Alfieri, sulla Francia e sulla Rivoluzione, ma egli rivolge l'invettiva anche verso il quadro politico e sociale europeo, verso i molti tiranni antichi e recenti, che dominarono e dominano l'Europa. Per l'Alfieri, «i francesi non possono essere liberi, ma potranno esserlo gli italiani», mitizzando così un'ipotetica Italia futura, «virtuosa, magnanima, libera ed una».
Pensate fin dal 1777 e riprese più volte nell'arco della sua vita, sono componimenti sui "mali" che afflissero l'epoca del poeta. Sono diciassette:
Scritte nell'ultima parte della sua vita:
Alfieri è considerato dalla critica letteraria come l'anello di congiunzione di queste due correnti ideologiche, ma l'astigiano al contrario dei più importanti scrittori illuministi dell'epoca, quale Parini, Verri, Beccaria, Voltaire, che sono disposti a collaborare con i monarchi "illuminati" (Federico di Prussia, Caterina II di Russia, Maria Teresa d'Austria) e ad esporre le proprie idee nei salotti europei, rimane indipendente e reputa umiliante questo genere di compromesso.
D'altronde Alfieri fu un precursore del pensiero romantico anche nel suo stile di vita, sempre alla ricerca dell'autonomia ideologica (non a caso lasciò tutti i suoi beni alla sorella Giulia per poter abbandonare la sudditanza dai Savoia) e nel non accettare la netta distinzione settecentesca fra vita e letteratura, nel nome di valori etico-morali superiori.
Fin da giovane Vittorio Alfieri dimostrò un energico accanimento contro la tirannide e tutto ciò che può impedire la libertà ideale. In realtà risulta che questo antagonismo fosse diretto contro qualsiasi forma di potere che gli appariva iniqua e oppressiva. Anche il concetto di libertà che egli esalta non possiede precise connotazioni politiche o sociali, ma resta un concetto astratto.
La libertà alfieriana, infatti, è espressione di un individualismo eroico e desiderio di una realizzazione totale di sé. Infatti Alfieri sembra presentarci, invece che due concetti politici (tirannide e libertà), due rappresentazioni mitiche: il bisogno di affermazione dell'io, desideroso di spezzare ogni limite e le "forze oscure" che ne ostacolano l'agire. Questa ricerca di forti passioni, quest'ansia di infinita grandezza, di illimitato è il tipico titanismo alfieriano, che caratterizza, in modo più o meno marcato, tutte le sue opere.
Ciò che viene tanto osteggiato da Alfieri è molto probabilmente la percezione di un limite che rende impossibile la grandezza, tanto da procurargli costante irrequietezza, angosce e incubi che lo costringono a cercare nei suoi innumerevoli viaggi ciò che può trovare soltanto all'interno di se stesso.
Il sogno titanico è accompagnato da un costante pessimismo che ha le radici nella consapevolezza
dell'effettiva impotenza umana. Inoltre la volontà di infinita affermazione dell'io porta con sé un senso di trasgressione che gli causerà un senso di colpa di fondo, che verrà proiettato appunto nelle sue opere per trovare un rimedio al proprio malessere; fenomeno, questo, che viene chiamato catarsi.
« Il seme che hai piantato, o Alfieri, fruttò ed ora l'Italia combatte e sarà grande » | |
( da una dedica sul libro delle firme in Palazzo Alfieri, 1849)
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Alfieri ha fortemente ispirato la letteratura ed il pensiero italiano del XIX secolo.
Foscolo lo ha cantato nei Sepolcri, Leopardi lo ha immaginato suo maestro nella canzone Ad Angelo Mai, Manzoni si è ispirato ai suoi saldi principi e così Gioberti, Oriani, Carducci.
I primi uomini del Risorgimento italiano, da Santorre di Santarosa a Cesare Balbo, si riconobbero nei suoi ideali e la casa natale di Asti fu meta di moltissimi uomini che combatterono per l'unità d'Italia.
Giosuè Carducci affermò che l'Alfieri, insieme all'Alighieri e a Machiavelli è il
« Nume indigete d'Italia[5] » | |
Secondo Pietro Cazzani, direttore del Centro studi Alfieriani tra il 1939 ed il 1957, la differenza di fondo (oltre a quelle ben più evidenti): «è la "toscanità" del fiorentino, i cui umori si trasformano in aggressive ironiche fantasie, contrapposta al "piemontesismo" dell'astigiano, la cui seria moralità prende toni cupi con impensabili estri».
Per Umberto Calosso, ne L'Anarchia di Vittorio Alfieri, (Bari 1924) il poeta non dimenticò mai le sue origini, con quel «misto di ferocia e generosità, che non si potrà mai capire da chi non ha esperienza dei costumi e del sangue piemontese».
Alfieri scrisse poi due sonetti (gli unici) in lingua piemontese datati aprile e giugno 1783.[6]
Ecco il testo del primo:
(Pms) « Son dur, lo seu, son dur, ma i parlo a gent
ch'ha l'ànima tant mola e dëslavà Tuti s'amparo 'l Metastasio a ment Pure im dogn nen për vint fin ch'as decida Già ch'ant cost mond l'un l'àutr bzògna ch'as rida, |
(IT) « Sono duro, lo so, sono duro, ma parlo a gente
che ha l'anima tanto fiacca e sporca Tutti si imparano a memoria il Metastasio Eppure io non mi do per vinto finché non si decida Giàcche in questo mondo bisogna che si rida l'uno dell'altro, |
Umberto Calosso accosta l'opera di Alfieri «illuminista in fervido movimento» a quella di Beethoven, per il critico i motivi profondi dell'Alfieri risuonano «nei precipizi abissali della sinfonia di Beethoven».
Anche per il Cazzani, in molte tragedie alfieriane, ci troviamo davanti alla stessa solitudine cosmica del maestro di Bonn.
Nella sua autobiografia il poeta racconta di come la musica suscitava nel suo animo grande commozione. L'Alfieri più volte raccontò come quasi tutte le tragedie siano state ideate o durante l'ascolto di musica o poche ore dopo averla ascoltata.
Alcuni manoscritti contengono anche le indicazioni delle musiche da eseguirsi durante le rappresentazioni teatrali (per esempio il Bruto secondo).
Il Cazzani ipotizza anche che tra i musicisti prediletti dell'Alfieri ci sia il piemontese Giovanni Battista Viotti, che fu presente a Torino, Parigi e Londra negli stessi anni dei soggiorni alfieriani.
Il poeta che più di una volta confessò di essere sensibile alle bellezze naturali, davanti alle opere artistiche manifestava una certa «ottusità d'intelletto».
A Firenze, per la prima volta nel 1766, dichiarò che le visite alla Galleria e a Palazzo Pitti, si svolgevano forzatamente, con molta nausea, senza nessun senso del bello.
Di Bologna scrisse: «... dei suoi quadri non ne seppi nulla».[7]
Quando visse a Roma nascevano i primi fermenti del movimento archeologico che precedette il Neoclassicismo, non fece nessuna menzione degli artisti che ne presero parte,ed anche il salotto della contessa d'Albany, a Parigi frequentato dagli artisti più noti dell'epoca (tra cui Jacques-Louis David) non era per lui di alcun interesse, e del Louvre gli interessò «solo la facciata».[8]
Questo spiega perché, fatta eccezione dei ritratti di François-Xavier Fabre , nessuna tela di un certo valore adornò le pareti degli appartamenti abitati da Alfieri nel corso della vita.
L'Alfieri e la contessa d'Albany, nell'agosto 1792, dovettero abbandonare precipitosamente Parigi per l'insurrezione repubblicana. Dall'inventario degli oggetti d'arte della casa di Parigi (Maison de Thélusson, rue de Provence n°18), stilato dal governo rivoluzionario dopo la confisca degli immobili e contenuto negli Archives nationales di Parigi si è potuto risalire ai quadri presenti negli appartamenti.
Anche in questo caso l'elenco è deludente: si tratta più che altro di riproduzioni incise per lo più dei Carracci, della Cappella Sistina, della Scuola di Atene, della galleria di Palazzo Farnese, con qualche incisione riproducente opere di Elisabeth Vigée-Le Brun, di Angelika Kauffman, di Anton Raphael Mengs.
Tre francobolli commemorativi sono stati emessi dalle poste italiane per ricordare la figura del trageda astigiano.
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