È all’origine delle letterature europee, un’opera ancora oggi letta, studiata e amata da persone di ogni età: stiamo parlando dell’Iliade di cui Andrew Ford, esperto di Omero e insegnante a Princeton, ci aiuta a capire qualcosa nel podcast, qui sotto inserito e sintetizzato.

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LA GENESI DELL’OPERA

Metti una guerra cruenta, la cui eco non si è spenta nei secoli successivi; metti una lunga serie di cantori che, di generazione in generazione, hanno portato in giro per la Grecia le storie di quel conflitto, memorizzandole e contribuendo ad aumentare le materia narrata; metti, dopo più di tre secoli di racconti orali, l’intervento di un cantore che ha preso quel vasto “database” narrativo e ha dato vita a un unico racconto, cucendo insieme i numerosi episodi sulla base di un disegno complessivo (c’è – è vero – qualche contraddizione, che però non scalfisce l’organicità dell’opera): avrai ottenuto l’Iliade!

OMERO: CHI ERA?

Di Omero, attestato come autore dell’opera, sappiamo solo ciò che i greci antichi ci hanno tramandato, quattro secoli dopo di lui, e cioè che era cieco, particolare forse desunto più che dalla sua vita dal cantore Demodoco, cieco anche lui, che appare nell’Odissea. Chiunque fosse, è poco probabile che, dopo la “fatica” di comporre l’Iliade, si sia occupato anche della stesura dell’Odissea, opera che appare diversa per lingua e materia (il mondo dell’Odissea e le sue tradizioni appartengono a un’epoca nuova).

“O MUSA”, UN RICHIAMO RELIGIOSO

Il primo verso del proemio contiene l’invocazione a una musa: è Mnemosine, il cui nome richiama la tradizione orale da dove il poema ha avuto origine. Averla chiamata in causa non è solo un’espediente letterario, ma ha soprattutto una funzione religiosa. Bisogna considerare, infatti, che l’Iliade non fu scritta per la lettura individuale, ma per la recitazione in un contesto sociale. Chi ne ascoltava i versi, lasciava la taverna o il palazzo in cui si trovava e andava con la mente in un altrove accessibile solo grazie al canto del poeta, che quindi ha in sé qualcosa di magico, di religioso appunto. Il pubblico, quando sentiva “o musa”, insomma, restava rapito dall’invocazione.

IL CATALOGO DELLE NAVI: UN PEZZO DI STORIOGRAFIA ANTE LITTERAM?

Una delle parti più note è il catalogo delle navi (secondo libro), dove Omero elenca i capi greci che partono per Trioia e il numero delle navi inviate da varie regioni della Grecia. È, in fondo, uno spaccato geopolitico di un mondo lontano, quello della fine dell’età del bronzo, che l’autore vuole preservare. Lo fa però senza la capacità analitica attribuibile a Erodoto o, ancor più, a Tucidide.

L’IRA COME TEMA E MOTORE DEL POEMA

La prima parola dell’opera è “menin”, ira, come complemento oggetto del verbo cantare. Questo è possibile perché nella lingua greca le parole possono occupare qualsiasi posizione indipendentemente dalla loro funzione logica. Omero poteva scegliere qualsiasi termine, ma preferisce optare per questo: perché? In una dimensione orale, la prima parola funge da titolo e dà immediatamente il senso del contenuto: infatti, la vicenda narrata è esclusivamente quella che deriva dall’ira di Achille e non l’intera guerra di Troia (il titolo di Iliade è stato dato solo successivamente ed è fuorviante).

Nell’immagine, Achille e Aiace che giocano a dadi, anfora a figure nere del pittore greco Exechias (VI a.C.)

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E IL LIBERO ARBITRIO?

Il proemio, che inizia con il termine “ira”, si conclude con l’espressione “la volontà di Zeus”; poco più avanti, sempre nel primo libro, Atena frena Achille per i capelli, impedendogli di uccidere Agamennone. C’è spazio, in una realtà dominata dagli dei, per il libero arbitrio? In realtà, quando leggiamo che gli eroi accettano di assecondare gli dei, dovremmo pensare, più che a una sottomissione, a una coalizione di due forze e vedere nell’intervento divino un’esaltazione della scelta dell’eroe, perché ha alle sue spalle il sostegno della divinità.

GLI DEI IN OMERO

Quando Omero diede vita all’Iliade, la storia da lui narrata era già un lontano passato. Come poteva reagire il suo pubblico di fronte all’intervento divino? È molto probabile che percepisse il periodo della guerra di Troia come un momento grandioso ma concluso, un’età dell’oro popolata da uomini fortissimi, in grado di sollevare pietre enormi. In quell’epoca il divino e l’umano potevano ancora incontrarsi: non c’era niente di strano in ciò. Più tardi, in epoca classica e successivamente, le divinità ritratte da Omero apparvero quasi scandalose con le loro passioni umane, talvolta per giunta meschine quanto e più degli uomini (si pensi al banchetto degli dei, alla fine del primo libro, quando Efesto viene schernito dai suoi simili perché zoppo). Omero stesso appariva sacrilego nel modo in cui le metteva in scena. Bisognerebbe ricordare, però, che nell’Iliade, anche gli dei sono personaggi: pertanto, appartengono più alla mitologia che alla sfera religiosa.

MANTENERE GLI EQUILIBRI

La contesa tra Agamennone e Achille, che dà origine all’ira di quest’ultimo, si inserisce in un contesto di guerra: l’esercito greco, per vivere lontano da casa, ha bisogno di compiere continue scorrerie nei territori intorno a Troia. Da queste ottiene cibo e schiavi; il bottino viene poi diviso tra i capi, sulla base del loro status sociale. Questa situazione, finché rispettata da tutti, crea equilibrio nell’esercito. Poi, però, Apollo pretende la restituzione di Criseide, figlia del suo sacerdote Crise e schiava di Agamennone. Lo fa nel più duro dei modi: mandando un’epidemia nel campo greco perché Agamennone non vuole restituire il suo bottino e vedere così sminuita la sua figura. Quando il “sire d’eroi” si trova costretto a rimandare la donna dal padre, si viene a creare una situazione di crisi istituzionale: la perdita, se non ricompensata, rischia di mettere in gioco la leadership stessa del capo. È ancora una questione d’onore per Agamennone, come l’aver deciso di combattere a fianco del fratello Menelao, a cui è stata portata via la sposa.

OMERO E LA TRAGEDIA

Nella contesa per la schiava Briseide, chiesta come compensazione, entra in scena Nestore, vecchio guerriero e voce dell’esperienza. È lui a consigliare ad Agamennone di non pretenderla da Achille sulla base di valutazioni a lungo termine, che però due guerrieri più giovani, impegnati a proteggere il proprio onore, non possono considerare. Questa scena è fortemente dialogica e densa di pathos. Si pensi al momento in cui Nestore interiviene, alzando la voce per farsi sentire dai due contendenti: non è forse una scena da rappresentazione teatrale? Proprio perciò Omero è stato considerato da Platone padre della tragedia.

L’ONORE A COSTO DELLA MORTE

Achille non ha nessun obbligo nei confronti di Agamennone. Non ha deciso di prendere parte alla guerra per salvare l’onore di Menelao; l’ha fatto, se mai, per accrescere il proprio status, per cogliere un’opportunità sociale (può incontrare altri giovani importanti come lui) e per acquistare gloria eterna. Sa che morirà perché così gli è stato profetizzato, ma meglio una vita breve e degna di rispetto che una lunga vecchiaia passata nell’oscurità.

LA NOBILTÀ DEL NEMICO

Non c’è nessun “cattivo” tra i nemici greci, né il conflitto è lo scontro tra bene e male. Anche i troiani sono dipinti positivamente e vantano tratti di nobiltà. Del resto, se la guerra contro la loro città dura da dieci anni, ciò significa che sono avversari degni della controparte greca. Ma se manca la parte “cattiva”, qual è la causa di ciò che accade nel poema? Alla base di tutto c’è l’ira, quella per il gesto di Paride, che porta via Elena, e quella legata alla pretesa di Agamennone di avere Briseide, schiava di Achille. Le conseguenze di questo sentimento, in fondo alimentato da piccole cose (mantenere il proprio status), sono terribili ed è questo ciò che Omero vuole rappresentare.

IL FINALE

Nel ventiquattresimo libro, l’ultimo, Priamo si reca alla tenda di Achille per avere indietro il corpo di Ettore, per il quale desidera una degna sepoltura. Ma il Pelide è ancora accecato dall’ira e non vuole cedere: il cadavere deve restare insepolto, pasto per cani e uccelli. Sono le parole di Priamo, alla fine, a persuaderlo: egli fa leva sul rapporto padre-figlio e, sottolineando come ormai sia rimasto solo, senza più difesa alcuna, porta il suo avversario a volgere la mente al proprio padre, che, lontano, soffrirà la stessa sorte (Achille, infatti, è destinato a morire). È così che la collera si trasforma in compassione e rispetto, tanto che, invece di restituire direttamente Ettore, il cui corpo straziato aumenterebbe la sofferenza del padre, lo fa portare in un altro luogo dalle schiave, che poi lo lavano, lo ungono con l’olio e lo rivestono di una bella tunica.

FINISCE DAVVERO COSÌ?

L’Iliade, dunque, iniziata con un tentativo fallito di riscatto (Crise che chiede indietro la figlia Criseide), si chiude con un tentativo di riscatto andato a buon fine. Sembrerebbe una struttura ad anello (riscatto riuscito-riscatto fallito; inizio dell’ira-fine dell’ira), assolutamente conclusa. Alcuni manoscritti, però, presentano, dopo l’ultimo verso, un altro, nel quale si annuncia l’arrivo delle Amazzoni, che porterebbero un nuovo equilibrio, sostenendo i troiani dopo la morte di Ettore. Se è vero che la saga continua, con altra materia ed altri eventi, è altrettanto vero che in una tale mole di storie il poeta doveva operare una scelta e decidere dove iniziare a dove fermarsi: è più verosimile pensare che abbia concluso con il compianto funebre anche per dare un forte significato alla sua narrazione: il lamento della famiglia di Ettore e della città di Troia insegnano qual è la perdita per una comunità quando un eroe viene ucciso.