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I faggi accumulano carbonio per resistere al gelo

Una ricerca del Cnr e dell'istituto Max Planck ha preso in esame la resilienza di una faggeta abruzzese: colpita da una gelata tardiva, ha attinto alle proprie riserve per riprendersi

di Federico Formica

http://www.nationalgeographic.it/natura/piante/2019/09/06/news/i_fa...

alberi,boschi,botanica,italia

La faggeta di Collelongo fotografata il 19 maggio, dopo la gelata. Fotografia di Ettore D'Andrea/CNR

Le piante hanno diversi strumenti che utilizzano per resistere al cambiamento climatico globale. Volendole tradurre con i nomi di due virtù, potremmo chiamarle “previdenza” e “resilienza”.
Una ricerca italo-tedesca pubblicata su New Phytologist ha evidenziato che alcuni faggi abruzzesi, sferzati da una gelata primaverile, sono riusciti a rivestirsi di foglie utilizzando riserve di carbonio che avevano immagazzinato tra 5 e 9 anni prima. Uno studio che si inserisce in un filone di ricerca molto promettente in un’ottica di adattamento dei nostri ecosistemi all’aumento delle temperature nei prossimi decenni.

Lo studio del Cnr Isafom (Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo ) e Iret (Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri) è stato condotto su una faggeta abruzzese nel comune di Collelongo (in provincia de L’Aquila) a 1500 metri di altitudine. In questo bosco, a pochi chilometri dal crocevia tra le regioni di Abruzzo, Lazio e Molise nel 2016 si verificò una concatenazione di eventi estremi che la maggior parte degli scienziati si attende con una frequenza sempre maggiore nell’immediato 
futuro: un inverno caldo che anticipò la stagione vegetativa di due settimane, seguito da una insolita gelata primaverile avvenuta tra il 25 e il 26 di aprile.

Fine aprile sotto zero. In quella notte nella faggeta il termometro scese fino a -6,5 gradi centigradi riportando i faggi indietro di due settimane, senza foglie e senza gemme. Insomma, tutto da rifare. Ma nel giro di due mesi gli alberi si erano già completamente rivestiti, come se nulla fosse accaduto. Sono sopravvissuti nonostante gli fossero venuti a mancare i carboidrati da fotosintesi. Come ci sono riusciti? “Sapevamo che le piante hanno riserve di carbonio che usano per resistere alle difficoltà, che siano gelate o attacchi di insetti defogliatori - spiega Ettore D’Andrea, ricercatore del Cnr Isafom e primo autore dello studio - ma adesso abbiamo calcolato con precisione a quando risale questo carbonio”. Quello usato per tornare a vegetare nel 2016 era stato immagazzinato nel corso della fotosintesi avvenuta nel 2011. “Inoltre, si è stimato che nel momento subito prima della riemissione delle foglie, le piante studiate utilizzassero riserve ‘messe da parte’ sino a nove anni prima”, continua D’Andrea.




Ma se gli eventi estremi aumenteranno, esiste la possibilità che le piante arrivino a un punto di non ritorno, esaurendo le proprie riserve di carbonio e - con esse - la possibilità di tornare a vegetare?Secondo il ricercatore del Cnr questo scenario è improbabile: “Gli alberi di faggio stoccano riserve così abbondanti da permettergli di rimettere le foglie anche per quattro volte nel corso della stessa stagione. E nel 2016, alla fine della stagione vegetativa, abbiamo osservato che gli alberi avevano ricaricato il loro serbatoio quasi del tutto”.

Capire con precisione la dinamica con la quale gli alberi attingono alle proprie riserve di carbonio è molto importante per affrontare il cambiamento climatico in atto, che in Italia si traduce soprattutto con aumento delle temperature, diminuzione e diversa distribuzione delle precipitazioni. “Noi ipotizziamo che possa esserci anche un fattore genetico - aggiunge D’Andrea - e un nostro obiettivo è quello di identificare i fenotipi più resilienti da utilizzare nei futuri re-impianti”, in modo da aumentare la resilienza delle nostre foreste.

Il lato “positivo” dei test atomici. La datazione è stata fatta dall’istituto tedesco Max Planck attraverso un complesso e costoso strumento: un acceleratore di massa collegato a uno spettrometro. Sembra un paradosso - e forse lo è - ma una ricerca così importante per l’ambiente non sarebbe stata possibile se dalla fine degli anni Cinquanta e per i primi anni Sessanta non fosse avvenuta una serie di eventi catastrofici per il nostro pianeta: i test atomici condotti da Stati Uniti e Russia.
Tra i diversi effetti che questi test hanno avuto, c’è stato anche l’aumento del carbonio 14 in atmosfera: il cosiddetto “bomb peak”. Quando i test sono stati banditi (nel 1963 è stato raggiunto l’accordo per lo stop alle deflagrazioni in atmosfera, terrestri e sottomarine) la concentrazione di carbonio 14 ha iniziato a decrescere, spiega ancora D’Andrea “in parte perché gli ecosistemi naturali l’hanno assorbito, in parte perché si è ‘diluito’ con le emissioni di CO2 da fonti fossili, che non contengono carbonio 14. Oggi sappiamo che il ritmo di decrescita è del 3,5/4 per mille all’anno. In base a questo siamo in grado di effettuare datazioni molto precise, addirittura su scala annuale”.

(05 settembre 2019)

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