Il dramma romantico – almeno questo è il caso di “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti, e anche del romanzo storico di Walter Scott da cui l’opera è tratta – funzionava spesso come uno specchio infedele del quotidiano: restituiva una vicenda verosimile, ma la colorava di tinte sufficientemente tragiche da riscattarla dallo squallore del contemporaneo contesto borghese, nobilitandola.
Così in Lucia lo scheletro narrativo è plausibile: la storia di una ragazza che rifiuta lo sposo ufficiale per un precedente amore inviso alla sua famiglia. Ma l’ambientazione dei fatti in un passato lontano, fumoso e cupo, il richiamo al fantastico o al perturbante (fantasmi, ombre, presagi) e l’estremizzazione della trama che la porta a varcare la soglia della follia, del suicidio e della morte, mezzi di questa trasfigurazione del quotidiano in senso epico, veicolavano – per il pubblico borghese del 1835, sospeso anch’esso, nell’esperienza di tutti i giorni, fra “un desiderio che trascina e una convenienza che trattiene” (Flaubert) – la promessa dell’identificazione e della catarsi.
Il meccanismo di funzionamento dell’opera, in una rappresentazione contemporanea come quella dello scorso 27 Luglio nel cortile del Castello dei Carraresi di Padova, di cui Paolo Giani firmava regia, scene, costumi e luci, resta quello originale, a meno che non intervengano – nella messinscena, nella recitazione o nell’interpretazione – scelte che tengano conto dei paradigmi artistici e filosofici che si sono avvicendati dal tempo di Donizetti ai giorni nostri. L’apparato visivo di Giani non sembra aver puntato a costruire ulteriori livelli di significazione: le simbologie usate sono perlopiù interne all’opera – è il caso dei corvi disseminati per il castello, richiamo alla famiglia Ravenswood che, pur spodestata, ancora influenza la dimora degli Asthon, ma anche del fantasma della fontana, che permane in scena a lungo come un presagio dopo essere stato evocato nel dialogo fra Lucia e Alisa. Solo a tratti si sfiorava, senza raggiungerlo, un kitsch involontario che se coltivato avrebbe avuto un interessante effetto manieristico (soprattutto considerando le luci, spesso eccessive e con un uso continuo del blu acceso, e i continui movimenti degli attori e delle masse su e giù per la grande scalinata centrale che s’illuminava al loro passaggio). Insomma un’interpretazione “centrale”, che comunque tiene, grazie all’Orchestra di Padova e del Veneto, al direttore Giampaolo Bisanti che riesce a mantenere incalzante il flusso musicale e drammaturgico, e alle qualità vocali dei membri del triangolo drammaturgico centrale Lucia-Edgardo-Enrico.
In particolare Mattia Olivieri (Enrico) è stato particolarmente convincente per proiezione vocale e per qualità sceniche (meno per agilità e raffinatezza di fraseggio); Giordano Lucà (Edgardo) ha dato una buona prova nella parte del tenore, anche se la sua espressività ha risentito di una certa rigidità sul palco; Venera Protasova (Lucia) è stata estremamente raffinata e convincente dall’inizio alla fine, e particolarmente nella scena della follia, in cui la sua vocalità abbastanza leggera ben si adattava alle richieste di agilità di Donizetti. Nell’economia dei desideri borghese che pervade l’opera la follia è il luogo della libertà: al suo emergere le convenzioni iniziano a sgretolarsi, e così cadono anche alcuni dei muri immaginari che delimitano la scena, quasiché lo spazio liminale del teatro si inverasse un po’ di più. Forse per questo, o forse perché in quella scena Donizetti ha rallentato il movimento e diradato gli interventi dell’orchestra, come a sfruttare la qualità del silenzio, e questo ha permesso l’ingresso in scena dei suoni che inevitabilmente circondano un’esecuzione all’aperto – forse per l’aria spessa o per le luci calde – fatto è che durante quella scena, in cui la voce di Lucia si riduceva spesso a un filo adagiato sul frinire delle cicale, si è prodotto come un allargamento del campo visivo, tale da rendere lo spazio del teatro indistinguibile dalla realtà.
Foto Ph. Marco Corini
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