di Valeria Mannoia
Con un approccio veramente minimalistico, secondo il più recente linguaggio teatrale, l’Arabella si presenta al pubblico (il 14 maggio scorso) in una veste essenziale in cui i tratti culturali della società nobile viennese, tanto centrali nel libretto di Hugo von Hofmannsthal sono ridotti all’osso. L’atmosfera biedermeier della Vienna fin de siècle, con le sue linee ripulite e ordinate e le decorazioni floreali, lascia il posto a un palcoscenico nudo, totalmente oscurato (ma anche privo di cura nei dettagli) in cui appaiono le figure di tre donne: la chiromante, la madre Adelaide e la sorella Zdenka. L’oscurità diventa centrale, come una protagonista muta, uno specchio dell’introspezione psicologica dei personaggi, che ritorna costantemente in tutti i momenti in cui l’interiorizzazione diventa essenziale. In questo tetro esordio viene predetta la sorte dei Waldner e la possibilità di salvezza dal loro crollo finanziario (la regia è firmata da Jan Schmidt-Garre).
Le camere dell’albergo, che è il centro nevralgico degli intricati intrecci familiari, si riducono a una serie di rappresentazioni simboliche degli ambienti. Sono quasi epifanie di un mondo decadente che a tratti appare e scompare sulla costante oscurità della scena. Si tratta di semplici scorci angolari perfettamente arredati, adattati per essere manovrati manualmente sul palco da tecnici idealmente invisibili, ma nella realtà troppo poco discreti per cui suoni invadenti e corpi inattesi emergono e distraggono spesso l’attenzione. Ecco dunque apparire e farsi avanti sulla scena un salottino dove la giovane Zdenka, in abiti da valletto d’albergo, confabula con uno sguaiato Matteo, ansioso spasimante della sorella.
Si affianca una mezza camera da letto, da cui emerge dal sonno la protagonista Arabella e dove, con la sorella Zdenka, si esegue il primo duetto. Colpisce all’ascolto l’armonia dei timbri vocali di Betsy Horne e Olena Tokar che rendono ancora più fluido e intimo questo piccolo quadretto familiare. Dalla quinta laterale si introduce un terzo scorcio di salotto ove il conte Waldner, come da tradizione, vende la figlia primogenita al fin troppo rampante Mandrika. Arabella, giovane e avvenente fanciulla in età da marito, promettente speranza per la salvezza economica della famiglia, si mostra invece come un’amante delle feste e dello champagne, come un’esperta rubacuori abile nel sottomettere i pretendenti e sempre con una bottiglia alla mano. Il conte Elemer diventa il suo cagnolino servizievole, letteralmente prono a quattro zampe per essere cavalcato da un’ebbra Arabella che con una mano sculaccia il suo destriero e con l’altra regge la solita bottiglia di Moët Chandon. Sembra che lo champagne, che si tratti dell’intera bottiglia o solo di un bicchiere, voglia fungere da filo conduttore tra i giovani protagonisti dell’intricata vicenda amorosa.
La nuova promessa delle scene teatrali tedesche, Betsy Horne, sostiene egregiamente il ruolo della protagonista. La sua voce piena ma allo stesso tempo vellutata, specialmente nei pianissimi, aiuta a smorzare il carattere forse troppo dominante delineato per Arabella. A ricordarci i fasti e le luci dei balli e dei valzer viennesi del II atto non restano che gli abiti da sera dei convitati. La scena ritorna ad essere spoglia e oscurata. L’unico movimento è dato dalla presenza di quinte realizzate ruotando completamente le camere d’albergo e sfruttandone il retro, in una grande economia di mezzi. Peccato che le luci di scena facciano risaltare troppo tutti i dettagli non curati del compensato.
Nella tetra area di festa interviene una provocante Fiakermilli a riportare l’allegria. Il soprano Diana Tomsche interpreta bene un ruolo il cui intento è fortemente destabilizzante per la narrazione. Le squillanti agilità della voce e le colorature quasi d’altri tempi, eseguite con cura e precisione tecnica, irretiscono i convitati e incantano brevemente gli spettatori. Non si spiega la scelta di calare il sipario tra II e III atto, durante un indimenticabile intermezzo strumentale (non ci si poteva aspettare altro dall’orchestra del Gewandhaus diretta da Ulf Schirmer), per rialzarlo solo a metà, mentre le camere d’albergo non sono ancora completamente sparite. La scena, con gli ambienti sospesi tra il piano di calpestio e il sotto palco, amplifica il senso di incompiutezza, di attesa e di pericolo verso cui procede la narrazione. Un’accusa di tradimento aleggia nell’aria e un temuto duello di pistole tra il conte Waldner e Mandrika sembra prossimo.
La tensione visiva si risolve solo quando l’intreccio narrativo volge alla risoluzione con l’agnizione della sorella Zdenska che denuda il petto per mostrare la sua svelata femminilità, lo scioglimento dell’inganno e le nuove promesse d’amore tra la coppia Zdenska-Matteo e Arabella -Mandrika. Non si può negare che il libretto sia denso di elementi tematici tratti dal teatro d’ambiente borghese e dal teatro classico, troppo lontani dal mondo di valori contemporaneo. L’interpretazione registica dai toni volutamente simbolistici, privata di orpelli meccanicistici e volta ad accentuare il più possibile gli aspetti introspettivi dei personaggi, annulla l’evidente distanza culturale e generazionale che allontana il pubblico attuale dal testo di Hofmannsthal e permette di condividerne le emozioni.
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