di Massimo Rolando Zegna
Arnold Schönberg accanto a Ludwig van Beethoven: ovvero l'avanguardia è avanguardia al di là della sua data di nascita. Questo è forse il senso più profondo che innerva il programma pianistico che Maurizio Pollini presenterà al Teatro alla Scala il 16 gennaio.
È un ritorno manco a dirlo importante quello del pianista milanese sul palcoscenico del Piermarini, dove Pollini – che il 5 gennaio ha compiuto settantacinque anni – debuttò sedicenne nel lontano 1958, sotto la direzione di Thomas Schippers, interpretando la prima assoluta della Fantasia per pianoforte e strumenti a corda di Giorgio Federico Ghedini.
Vi sarebbe tornato due anni più tardi, subito dopo la vittoria al Concorso Chopin di Varsavia, con il Primo Concerto per pianoforte e orchestra di Fryderyk Chopin diretto da Sergiu Celibidache, e poi costantemente per altre 141 volte – tra recital e concerti affrontati al fianco di direttori della caratura di Claudio Abbado, Riccardo Muti, Daniel Barenboim, Pierre Boulez e Riccardo Chailly, presentando un vasto repertorio compreso tra Johann Sebastian Bach alla musica contemporanea, inclusa l’integrale delle Sonate di Beethoven, affrontata nell'arco di sette concerti nel 1995.
Il 16 gennaio, di Schönberg il maestro eseguirà i Drei Klavierstücke op. 11 e i Sechs kleine Klavierstücke op. 19, mentre di Beethoven tre celeberrime Sonate: la n. 8 in do minore op. 13 “Patetica”, la n. 24 in fa diesis maggiore op. 78 “À Thérèse” e la n. 23 in fa minore op. 57 “Appassionata”.
Pagine che Pollini affronta, secondo il suo stile interpretativo, in maniera assoluta, ogni volta come sfida. Un confronto che in prima istanza è di tecnica, sempre innalzata a livello di virtuosismo, anche quando il virtuosismo non sembra essere elemento essenziale alla musica, meglio, non è presente in maniera usuale, come momento di esibizione, ma si rivela nell’interpretazione di Pollini, con soluzioni incandescenti, come sostanza stessa del discorso musicale, come lucido mezzo interpretativo, come strumento che permette di accumulare intensità ed espressione.
Una sorta di corpo a corpo tenace, delirante e al tempo stesso austero, che svela il peso specifico di ciascuna composizione, ma anche il suo afflato utopistico, la sua tensione musicale (e viene da dire morale) e di ricerca sperimentale sul linguaggio che accomuna Beethoven e Schönberg, con le dovute individualità, ma senza facili etichette stilistiche. Nell'ottica di una visione del pianoforte come intransigente mezzo per una ricerca sperimentale sulla musica, come strumento ideale per affrontare una sfida e rivelare la modernità di una composizione.
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