cultură şi spiritualitate
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Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Seicento – Data: Marzo 18, 2019
Alla fine degli anni Novanta del Cinquecento, giunto da poco a Roma, il grande pittore lombardo Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) cominciò a dipingere alcuni quadri di soggetto religioso, destinati a quegli stessi collezionisti privati che tanto avevano apprezzato le sue prime opere profane. Pur affrontando soggetti legati alla tradizione cristiana, l’artista decise di non rinnegare la sua “pittura della realtà”, già sviluppata nei primi dipinti romani, e, abbandonando le iconografie ufficiali, volle presentare le sue scene sacre come pitture di genere. Nelle sue tele angeli, infatti, santi, persino Gesù e la Madonna non sono affatto idealizzati, tanto da sembrare personaggi tratti dalla vita quotidiana.
Il Riposo durante la fuga in Egitto, del 1597, è in questo senso già rivoluzionario. Il tema della fuga in Egitto faceva parte della tradizione pittorica italiana ma normalmente prevedeva che la Sacra Famiglia fosse mostrata in cammino, con la Madonna e il Bambino sull’asino e san Giuseppe a piedi.
Qui invece Caravaggio immaginò Maria, Giuseppe e Gesù che, stremati dal viaggio, si fermano a riposare accanto a un fiume, presso un bosco di querce e pioppi, uno dei pochi paesaggi dipinti da Caravaggio. L’artista, nonostante la sua giovane età, stava già dando prova di una cultura robusta e raffinata, a dispetto dei suoi detrattori che lo avrebbero descritto come rozzo e ignorante. Tutti i suoi dipinti sono permeati da una simbologia ricca ed elaborata, la quale dimostra, peraltro, una profonda conoscenza delle Sacre Scritture.
Si noterà, per esempio, che la natura accanto a San Giuseppe è piuttosto arida mentre a destra, dove si trova la Vergine col Bambino, il paesaggio è più rigoglioso: questa scelta, apparentemente singolare, serve a marcare il tema della rinascita, legata alla venuta di Cristo sulla Terra. Secondo lo storico dell’arte Maurizio Calvesi, uno dei massimi conoscitori di Caravaggio, il pittore ha infatti voluto raffigurare, da sinistra a destra, il percorso della salvazione cristiana, che dall’inanimato minerale (il sasso) passa all’animale (l’asino), poi all’essere umano (Giuseppe) e all’angelico (l’angelo violinista), per concludersi con il divino (la Vergine che abbraccia il Bambino Gesù).
Questa colta simbologia non balza tuttavia agli occhi, laddove invece il pubblico non erudito resta attratto dalla familiarità, anzi dalla quotidianità del soggetto, che appare piuttosto quello di una qualunque famiglia che sta affrontando le fatiche di un lungo viaggio. All’apparenza, infatti, non v’è nulla di sacro in quest’opera del Caravaggio.
Tutta la scena è pervasa da una estrema dolcezza. La Madonna si è addormentata con il bambino in braccio, un po’ inclinata in avanti, in una posa instabile ma naturalissima.
Giuseppe invece veglia, a protezione della sua famiglia. Si capisce benissimo che gli fanno male i piedi e che sta cascando dal sonno. Eppure, la sua figura di vecchio stanco appare assolutamente dignitosa e ispira un profondo rispetto. Egli rinuncia al riposo ristoratore per vegliare sulla sposa e su quel bambino che Dio gli ha dato in affido: custode della loro incolumità, si comporta come solo un vero padre può fare. D’altro canto, secondo sant’Agostino, «Giuseppe è padre non per virtù della carne ma della carità. Così dunque egli è padre e lo è realmente».
Un angelo esile e bellissimo, dalla carnagione candida e dalle grandi ali di rondine (e dai profili singolarmente femminili), suona il violino per tenere loro compagnia. Il divino irrompe nell’umano ma con una concretezza, una verità impressionanti.
Giuseppe, con un gesto di cortesia, gli tiene lo spartito e lo guarda, con espressione umile e stupita, non meno dell’asino alle sue spalle che sembra chiedersi da dove sia sbucato quel curioso giovanotto.
Mirabili sono i particolari della scena, come i sassi in primo piano, il fiasco tappato con uno straccio o ancora il lucente occhio scuro dell’asino e perfino le piante che circondano Maria, le quali, a loro volta, richiamano simbolicamente l’azione salvifica dell’incarnazione, morte e resurrezione di Cristo: l’alloro, che allude alla verginità di Maria, la canna, il rovo e il cardo, simboli della Passione di Cristo, e il tasso barbasso che simboleggia la Resurrezione.
Perfino lo spartito che Giuseppe tiene in mano non è “finto”. Alcuni musicologi vi hanno riconosciuto le note di un mottetto dedicato alla Vergine, composto nel 1519 dal musicista franco-fiammingo Noel Baulduin (1480-1529) sul tema del Cantico dei Cantici e intitolato Quam pulchra es.
Secondo l’interpretazione della Chiesa Cattolica, il Cantico dei Cantici (libro del Vecchio Testamento) è una prefigurazione dell’amore mistico dello Sposo (identificato con Cristo) per la Sposa (la Vergine, la Chiesa). Al Cantico, sempre secondo Maurizio Calvesi, rimandano anche altri elementi del dipinto come i capelli della Madonna, che sono rossi («Le chiome del tuo capo sono come la porpora del re»), e il suo sonno, che richiama un versetto recitato dalla Sposa: «io dormo, ma il mio cuore veglia».
Si noti che il violino suonato dall’angelo ha una corda spezzata e questo per indicare, simbolicamente, la precarietà della vita umana. Una precarietà che ci appartiene e che ha segnato anche la vita mortale di quei personaggi, di Maria, di Giuseppe e dello stesso Gesù, destinati, certo, alla gloria dei cieli ma intanto costretti a condividere, con noi tutti, l’ansia, la paura e la stanchezza.
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